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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo finale di Fabrizio (interpretato da Fabrizio Sansone) è il cuore pulsante di E poi si vede. È il momento in cui la commedia lascia spazio alla riflessione, in cui la risata si ferma e resta soltanto la voce di una generazione intera che finalmente prende parola. Una dichiarazione d’intenti, un’accusa, ma anche una resa dei conti.
Nel climax di E poi si vede, quando le maschere dei personaggi cadono e la verità viene a galla, Fabrizio prende la parola in aula e si trasforma — da personaggio comico, spesso schiacciato dalla propria insicurezza, a portavoce generazionale. Questo monologo non è solo la difesa di un amico (Federico), ma una vera e propria invettiva civile, recitata con una sincerità che spiazza, dentro un'aula che diventa simbolica: tribunale, ma anche teatro, confessionale e piazza.
MINUTAGGIO: 1:27:00-1:30:00
RUOLO: Fabrizio
ATTORE: Fabrizio Sansone
DOVE: Netflix
Signor giudice, quale sarebbe la colpa del mio assistito? Di aver rubato una raccomandazione? Di essere uno dei tanti giovani costretti a cercare un'espediente per rendersi indipendenti, ed evitare di gravare sui propri genitori a trent'anni? Di che cosa lo vogliamo accusare? Di essere in ritardo, perché la società gli mette fatta? Oggi essere giovani è difficile, signor giudice. Perché se l'ansia non ce l'hai, te la fanno venire. Voi, la vostra generazione, quella dei nostri genitori, a 25 anni avevate una casa, un lavoro, una famiglia. Noi invece a trenta non abbiamo una vita. Diciamo che noi giovani stiamo male ma stiamo bene. Noi non vogliamo un posto fisso. Noi vorremmo solo un posto nella società. Ecco, signor giudice, anche io ho partecipato a quel concorso, e io sono uno di quelli che per andare a vivere con la sua ragazza farebbe di tutto. Quindi vi chiedo: "Di chi è la colpa?". La colpa è vostra, delle vecchie generazioni, che non hanno saputo guardare a noi? O la colpa è nostra, che non siamo all'altezza. Poi magari verranno le nuove generazioni e ci diranno le stesse cose che noi diciamo. Voi. Perché voi ci avete detto un sacco di volte: "E poi si vede". Questo poi è arrivato. Federico Pagano non ha pagato nessuno, né ha convinto qualcuno a compiere atti contrari ai suoi voleri. E quindi non ha compiuto alcun reato. Diciamo che se i treni giusti passano una sola volta nella vita lui ci è salito senza pagare il biglietto. E pertanto va assolto. Grazie.
La trama di E poi si vede prende forma dentro uno scenario che sembra semplice ma che, in realtà, gioca con una struttura narrativa a incastro tra ironia sociale e commedia generazionale. Tre protagonisti, tre case, tre background diversi, ma un unico obiettivo: vincere il concorso per un posto fisso come impiegato nell'ufficio legale del Comune. Un sogno che, per ognuno di loro, rappresenta qualcosa di profondamente diverso.
Federico (interpretato da Federico Sansone) è il classico ragazzo che ha fatto "tutto giusto" — laurea in giurisprudenza, giacca stirata, e poster di Berlusconi appeso in cameretta. Ma tutto questo è stato fatto per compiacere suo padre, consigliere comunale, una figura di potere che rappresenta proprio quel sistema clientelare di cui il film si prende gioco. Federico è il più “istituzionale”, ma anche quello più frustrato: aspetta che il padre lo raccomandi ufficialmente, ma intanto vive in una continua sospensione, come se bastasse aspettare, e intanto accetta di farsi consigliare dalla madre su come sedersi in bagno per non prendere malattie. Un dettaglio buffo, sì, ma che rivela quanto il personaggio sia dipendente e incapace di prendere in mano la propria vita.
Fabrizio (Fabrizio Sansone) è l’avvocato "per finta", quello che ha il titolo ma non ha mai esercitato, incastrato in una spirale di tentativi per passare un concorso pubblico. Fa il rider, vive in una casa modesta, e rappresenta un'intera generazione di laureati iperqualificati che si arrangiano con lavori a chiamata, temporanei, senza tutele. Il suo è un disagio sottile, che non si manifesta in lamentele, ma in un perenne “e poi si vede”, come se il tempo presente fosse solo una sala d'attesa.
Luca (Gabriele Cicirello), invece, è nato nella corsia di sorpasso. La madre è una politica locale dal fare spiccio e poco trasparente (Donatella Finocchiaro), che cerca di pilotare l’esito del concorso proprio grazie a una raccomandazione diretta, tramite un commissario compiacente (Maurizio Bologna). Il paradosso comico arriva quando il “codice segreto” dato per aiutare il figlio viene invece captato da Federico, che era seduto in bagno a origliare. Letteralmente: “a paperella”, come gli consiglia sua madre. Una scena che sembra surreale, ma che funziona perché agisce a metà tra la farsa e la metafora: nel luogo dove ci si libera del superfluo, Federico trova l’unico vero vantaggio competitivo.
“Signor giudice, quale sarebbe la colpa del mio assistito?”
Fabrizio usa il linguaggio formale del diritto per parlare di precarietà, di mancanza di opportunità, di rabbia. Sta mettendo in discussione il sistema stesso che giudica.
“Di essere in ritardo, perché la società gli è venuta male?”
Questa è la frase chiave. Una battuta che funziona perché rovescia l’assunto tradizionale. Il giovane non è colpevole perché ha sbagliato, ma perché è stato messo nelle condizioni di non poter fare le cose “in tempo”. In una società costruita su binari vecchi, è facile deragliare. “A trenta non abbiamo una vita.”
La vita che i trentenni di oggi conducono non è paragonabile a quella dei loro genitori alla stessa età. Niente casa, niente stabilità, niente certezze. Solo ansia, aspettative deluse, tentativi di adattamento. È la fotografia lucida di una generazione ferma al palo, ma piena di voglia di fare.
“Noi non vogliamo un posto fisso. Noi vorremmo solo un posto nella società.”
Ironizza sul mito del "posto fisso", quello che per anni è stato il sogno di ogni famiglia italiana. Ma qui si ribalta tutto: ciò che manca non è tanto un contratto, quanto un'identità riconosciuta, un senso di appartenenza. I giovani non cercano garanzie materiali — cercano di essere visti, ascoltati, presi sul serio. “Di chi è la colpa?” La domanda non ha una risposta univoca. E Fabrizio lo sa. Infatti, non punta il dito in modo assoluto: apre una riflessione, ammette che forse la colpa è anche loro, dei giovani. Ma è proprio questa ambiguità che rende il discorso vero, profondo. Non è uno sfogo ideologico, è un atto di coscienza collettiva.
“Questo poi è arrivato.” Il titolo del film viene citato qui, ed è una stoccata amara. Quel “poi” che i genitori dicevano per rimandare, per tranquillizzare, è diventato il presente. E il presente è disilluso. Ma Fabrizio non piange addosso: prende atto, con lucidità. Quel “poi” non porta salvezza, ma consapevolezza. “Se i treni giusti passano una sola volta nella vita, lui ci è salito senza pagare il biglietto.”
Federico non ha manipolato nessuno, ha solo approfittato di un’occasione che passava davanti a lui. Non è corruzione, è sopravvivenza. È il compromesso silenzioso che fanno in tanti, tutti i giorni.
Fabrizio non è un eroe. È uno dei tanti. Ma è uno dei pochi che, in quel momento, ha il coraggio di dire le cose come stanno. Senza paura di passare per lamentoso, senza la pretesa di avere ragione. E il film trova qui la sua vera direzione: non si tratta di vincere un concorso, ma di essere ascoltati. Di avere voce. Di “avere un posto”.
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