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~ LA REDAZIONE DI RC
Questa è una delle confessioni più intime di Michelle in “10 Cloverfield Lane”. In un film che lavora sottilmente sulla trasformazione personale e sulla costruzione dell’identità sotto stress, questo monologo è il momento in cui Michelle si guarda dentro e capisce che non può più rimanere spettatrice passiva della propria vita. È una chiave per leggere il suo arco narrativo. In questo contesto Michelle, che fino a quel punto si è mostrata molto contenuta, racconta un ricordo traumatico ma significativo: un episodio apparentemente piccolo, ma che la definisce più di qualunque background espositivo.
MINUTAGGIO: 51:40-54:13
RUOLO: Michelle
ATTRICE: Mary Elizabeth Winstead
DOVE: Netflix
ITALIANO
Qualche… qualche anno fa, ero in un negozio di ferramenta. E c’era una ragazzina con suo padre. Lui andava di fretta, ma lei non gli stava dietro. Così lui la tirava per il braccio. Ma con forza, sai… Troppa. So che cosa si prova. Quando mio padre faceva così, mio fratello Colin era sempre pronto a prendersi le botte per me. Ho pensato, vedendo quella ragazzina, che avrei dovuto fare lo stesso per lei. Ma sono rimasta a guardare, e stanno per andare via e io non ho fatto niente. E… lei scivola, fa cadere il padre e lui la colpisce. Io volevo disperatamente fare qualcosa per aiutarla, ma… come facevo quando le cose si mettevano male. Colta dal panico sono scappata.
10 Cloverfield Lane” (2016), diretto da Dan Trachtenberg, è un film che si muove in un terreno molto interessante: prende le regole del thriller psicologico e le incastra dentro una cornice da sci-fi post-apocalittico. Il risultato è un’opera che lavora sul sospetto, sull’angoscia e sull’instabilità del punto di vista dello spettatore. Andiamo con ordine. La storia si apre con un incidente stradale. Michelle (Mary Elizabeth Winstead) sta lasciando la sua città e il suo compagno dopo una discussione: lo capiamo attraverso una serie di inquadrature silenziose, essenziali, che ci dicono molto del suo stato emotivo senza una parola. La sua macchina esce di strada e lei perde i sensi.
Quando si risveglia, si trova incatenata a un letto, in un bunker sotterraneo. Qui entra in scena Howard (John Goodman), un uomo corpulento, ambiguo, dalle maniere gentili ma che sembrano trattenere qualcosa di disturbante. Le dice che fuori è successo qualcosa di catastrofico: un attacco chimico o nucleare — non è chiaro. Il mondo esterno, secondo lui, è invivibile. Michelle non ha scelta: deve restare nel bunker per sopravvivere.
Nel bunker c’è anche un altro personaggio, Emmett (John Gallagher Jr.), che conferma la versione di Howard. Emmett dice di aver visto un’esplosione e di aver cercato rifugio nel bunker, che in parte ha aiutato a costruire. Ma qui inizia il cuore della tensione narrativa: chi dice la verità? La trama gioca su un meccanismo classico: la protagonista non sa se può fidarsi di chi ha intorno. Il bunker diventa una prigione ambigua. È un rifugio o una trappola? Howard si comporta in modo paternalistico, a tratti violento, con un controllo quasi ossessivo su ciò che succede nel rifugio.
Man mano che Michelle esplora lo spazio, raccoglie indizi: una finestra con segni di sangue e graffi, una fotografia misteriosa, una storia che non combacia. Ecco che il film diventa una partita a scacchi tra la protagonista e Howard. Michelle cerca di mantenere la calma, ma prepara la fuga. Lo spettatore viene tirato da una parte e dall’altra, senza mai sapere fino in fondo chi ha ragione.
Nel terzo atto, Michelle riesce finalmente a scappare dal bunker. E qui il film cambia pelle. Quando esce all’aperto, si rende conto che… sì, c’è davvero qualcosa là fuori. Il cielo è solcato da navi aliene, ci sono creature sconosciute. Non era del tutto paranoia. Howard aveva ragione – ma lo era anche un uomo disturbato, capace di gesti estremi.
Il film si chiude con Michelle che decide di non fuggire, ma di andare incontro al pericolo: sente alla radio che c’è una resistenza in atto e si dirige verso Houston, pronta a combattere.
Il monologo inizia con un’immagine semplice, quasi banale: “Qualche… qualche anno fa, ero in un negozio di ferramenta.” Il tono spezzato, esitante, è fondamentale. Michelle sta parlando di qualcosa che la ferisce, ma non si tratta di un trauma eclatante: si tratta di un momento in cui non ha agito. Ha assistito a una scena di abuso — un padre che strattona la figlia con troppa forza — e non ha fatto nulla. Non è un ricordo di violenza personale, ma di impotenza morale.
Il vero centro del monologo è questo: “Io volevo disperatamente fare qualcosa per aiutarla, ma… come facevo quando le cose si mettevano male. Colta dal panico sono scappata.” Qui Michelle stabilisce un collegamento diretto tra il passato e il presente. Non è solo una storia che racconta, è una diagnosi di sé. Ammette che, ogni volta che la situazione diventava difficile, lei reagiva con la fuga. Il panico la paralizzava. E non è una condizione generica: è il nodo emotivo che guida tutte le sue scelte fino a quel momento.
Quello che rende questo monologo fondamentale è che non cambia subito le cose, ma pianta un seme. È il momento in cui Michelle comincia ad accettare di dover cambiare. Fino a quel punto, ha lasciato che gli eventi la travolgessero: l’incidente, il bunker, Howard. In questa scena, prende coscienza che continuare a scappare non è più possibile.
Questo momento di riflessione personale si lega perfettamente alla decisione che prenderà più avanti: affrontare il pericolo, combattere, uscire dal bunker, e alla fine, scegliere di unirsi alla resistenza anziché fuggire ancora. La Michelle che racconta questo aneddoto è ancora insicura, ancora segnata. Ma è una Michelle che ha iniziato a guardare la propria paura in faccia.
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