Monologo Teatrale Femminile - \"La moglie Ebrea\", di Bertolt Brecht

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

In questo monologo, tratto dal breve atto unico La moglie ebrea all'interno della raccolta Terrore e miseria del Terzo Reich, Bertolt Brecht dà voce a una donna ebrea borghese, Judith Keith, mentre si prepara a lasciare il marito e la Germania nazista. Non c’è scena d’azione, non ci sono soldati o minacce esplicite. C’è solo una donna in casa sua che parla da sola, con frasi spezzate, pensieri contraddittori, slanci affettivi e scariche di rabbia. Eppure, in quelle parole si condensa tutta la violenza psicologica, sociale e politica di un regime che agisce anche e soprattutto attraverso il silenzio e la passività degli altri.

Il monologo è una lama che incide la coscienza individuale, la frantuma, la mette a nudo. Qui, il teatro epico di Brecht funziona per sottrazione: toglie il rumore della storia e lascia che a parlare sia l’intimità devastata.

Rabbia, violenza e l'essere Ebrei nel regime

Non ti ho detto che volevo andarmene già da molto tempo, perché non posso parlarne quando ti guardo, Fritz. Mi sembra così inutile parlare. Tanto è già tutto stabilito.

Che cos’hanno? Cosa vogliono in realtà? Che cosa gli ho fatto?

Non mi sono mai occupata di politica. Ero per Thalimann, forse? Io sono una di quelle signore borghesi che hanno una casa con dei camerieri, eccetra. E tutto ad un tratto, che cosa succede? Solo alle bionde è permesso essere così?

Negli ultimi tempi ho pensato spesso a quello che mi dicevi anni fa. Che ci sono persone che valgono e persone che valgono meno e che ai primi, quando hanno il diabete, si dà l’insulina e agli altri no. E allora mi era parso naturale. Stupida che non ero altro! E adesso hanno fatto una nuova distinzione dello stesso genere e io appartengo alla catgoria delle persone che valgono meno. Ben mi sta!

Sì, faccio le valigie, non devi far finta di non aver notato niente in questi ultimi giorni. Fritz, posso sopportare tutto meno questo: di non guardarci negli occhi, nelle ultime ore che ci rimangono. Almeno questa soddisfaziobne non dobbiamo darla a quei bugiardi che costringono tutti quanti a mentire.

Dieci anni fa, quando qualcuno diceva che non si notava affatto che fossi ebrea, tu replicavi: “Eh, altro che!” Era una cosa che mi faceva piacere. Era sincerità.

Perché non avere adesso il coraggio di dire le cose come sono? Faccio le valigie perché altrimenti non sarai più primario. Perché quelli della clinica ti salutano già a stento e perché la notte non riesci a dormire.

Non voglio che tu mi dica che non devo partire. Anzi, mi affretto perché non voglio che un giorno o l’altro tu mi dica che devo andarmene.

È solo questione di tempo. Il carattere è questione di tempo. Dura più o meno proprio come un guanto. Ce ne sono di buoni che durano un pezzo, ma mai in terno.

Del resto non sono neppure arrabbiata. Ma sì che lo sono, invece!

Perché devo tollerare tutto questo? Cosa c’è di male nella forma del mio naso e nel colore dei miei capelli? E devo lasciare la città dove sono nata e cresciuta perché quelli possano risparmiare del burro.

Che razza di uomini siete? Sì, anche tu! Siete capaci di inventare la teoria quantistica e lasciate che dei barbari vi ordinino di conquistare il mondo e vi vietano di tenervi la moglie che vorreste avere!

Voi siete dei mostri o dei leccapiedi di mostri. Sì, non è ragionevole da parte mia, ma a che cosa serve la ragione in un mondo simile? Tu te ne stai lì, vedi tua moglie che fa le valigie e non dici niente! Perché anche i muri hanno le orecchie, vero? Ma se voialtri non dite niente! Gli uni stanno ad ascoltare e gli asltri tacciono! Che schifo! Anch’io dovrei tacere… se ti amassi tacerei! Ma io ti amo, sul serio.

Nel paese dove andrò non deve più succedermi niente di simile. Se trovo un marito, devo sapermelo tenere.

E non dirmi che mi manderai del denaro. Sai che non è possibile. E non avere l’aria di credere che sia una cosa provvisoria, per poche settimane. Tu lo sai e lo so anch’io.

Non dire “In fin dei conti non è che per un paio di settimane” mentre mi porgi il mantello di pelliccia che non mi servirà prima dell’inverno.

Non parliamo di disgrazia. Parliamo di vergogna.

La moglie Ebrea

“La moglie ebrea” è un breve atto unico scritto da Bertolt Brecht nel 1935, durante il suo esilio a causa della persecuzione nazista. Fa parte dei cosiddetti “Fear and Misery of the Third Reich”, o in tedesco Furcht und Elend des Dritten Reiches, una raccolta di scene e atti brevi che mostrano come la dittatura nazista penetrasse nella quotidianità delle persone comuni. “La moglie ebrea” è uno dei testi più emblematici di questa raccolta, e non solo per il tema ma per la struttura drammatica e il tipo di tensione che costruisce. Brecht scrive “La moglie ebrea” mentre si trova in esilio, osservando da lontano la deriva autoritaria e razzista della Germania sotto Hitler. Il testo è profondamente radicato nella realtà degli anni '30, ma evita ogni tipo di drammaticità retorica o sentimentalismo. È un atto che mostra come la paura, la propaganda e la violenza istituzionalizzata agiscano lentamente ma inesorabilmente sulla coscienza individuale. Brecht applica qui quella che lui stesso chiamava “tecnica di distanziamento” (Verfremdungseffekt), ma lo fa in modo molto sottile.

Siamo in una casa borghese, nella Germania degli anni '30. Judith Keith, una donna ebrea sposata con un medico ariano, sta preparando la valigia. È decisa a lasciare la sua casa, il marito e la sua vita, per evitare di metterlo nei guai. Non si fa riferimento a eventi espliciti: non ci sono SS alla porta, non ci sono manifestazioni o deportazioni in corso. E proprio per questo, il senso di oppressione è ancora più forte. La protagonista si muove nella casa, parla tra sé, scrive una lettera al marito, rievoca momenti felici, pronuncia frasi a metà. Ci sono tagli netti tra una battuta e l’altra, cambi di pensiero improvvisi, passaggi in cui il flusso emotivo viene interrotto da piccoli gesti concreti, come scegliere un vestito o sistemare la valigia. È un monologo, ma è pieno di dialoghi immaginari. Judith parla a se stessa, ma nella sua testa sta già parlando al marito, agli amici, alla società che sta per lasciarsi alle spalle. La figura del marito è centrale, anche se non appare mai in scena. Judith lo ama, lo rispetta, ma è consapevole che lui sta scegliendo di adattarsi alla nuova realtà piuttosto che sfidarla. Non è un nazista, non è un mostro: è un uomo debole, come tanti.

Accetta il fatto che la moglie debba andarsene per “il suo bene”, per non compromettere la sua carriera. È proprio questo il nodo che Brecht mette in evidenza: la complicità di chi si adatta. Non serve essere colpevoli in modo attivo, basta non opporsi. Dal punto di vista drammaturgico, il testo è costruito come una sorta di stream of consciousness, ma molto più controllato. Ogni frase, ogni gesto, ogni ricordo serve a costruire una tensione latente. Judith si convince a partire, ma lo fa con una calma che lascia trasparire un dolore molto più profondo. Brecht lavora sul non detto, sullo spazio tra una battuta e l’altra, sulle pause. Il linguaggio è quotidiano, quasi banale, ed è proprio questa banalità a rendere tutto più inquietante. L’orrore non è nei campi di concentramento (non ancora, siamo nel ’35), ma nei piccoli gesti quotidiani che diventano inevitabili. Preparare una valigia diventa un atto politico. “La moglie ebrea” è una di quelle opere brevi che funzionano come un bisturi: tagliano nel profondo, senza fare troppo rumore. Non c’è pathos, non ci sono lacrime. C’è solo una donna che fa una valigia, e in quel gesto ci passa dentro tutto il terrore di un'epoca. Brecht ci mostra come le tragedie collettive iniziano spesso da scelte private. È lì che si forma – o si sgretola – l’etica individuale.

Analisi Monologo

Il monologo si apre con una frase che già ne definisce il tono: Non ti ho detto che volevo andarmene già da molto tempo, perché non posso parlarne quando ti guardo, Fritz.” Judith parla direttamente al marito, ma non è un dialogo. È un flusso interiore che ci fa entrare in una mente che si è aggrappata fino all’ultimo a una vita “normale”, borghese, fatta di case con camerieri e conversazioni leggere. Non mi sono mai occupata di politica. È una frase chiave. Non come giustificazione, ma come amara constatazione: anche chi si è tenuto alla larga da tutto ciò che è ideologia o conflitto, viene ugualmente stritolato. La persecuzione non distingue tra attivisti e passanti. Solo alle bionde è permesso essere così? Una battuta che mette insieme sarcasmo e disperazione, in cui l’assurdità della discriminazione razziale viene portata alle estreme conseguenze logiche. L’antisemitismo, per Brecht, non è un fatto “storico”, ma un meccanismo che si costruisce dentro le parole, le abitudini, gli sguardi che evitano altri sguardi.

Dieci anni fa, quando qualcuno diceva che non si notava affatto che fossi ebrea, tu replicavi: ‘Eh, altro che!’ Qui c’è un frammento di nostalgia sincera, che viene subito rovesciata: ciò che un tempo era affetto, ora suona come complicità. Il marito, Fritz, è silenzioso. E il suo silenzio è assordante. Non voglio che tu mi dica che non devo partire. (...) Non voglio che un giorno o l’altro tu mi dica che devo andarmene. Il cuore del monologo sta in questo passaggio. Judith vuole anticipare l’umiliazione. Sceglie di andarsene prima che le venga chiesto apertamente. È un gesto di dignità, ma anche di profonda sconfitta: scegliere di partire pur sapendo di non avere davvero scelta.

Che razza di uomini siete? Sì, anche tu!” Il monologo esplode in una sequenza di accuse, rivolte al marito ma anche all’intero contesto. È una rabbia razionale e quasi scientifica: la Germania capace di inventare la teoria quantistica si arrende a un potere barbarico che decide chi può amare chi. Voi siete dei mostri o dei leccapiedi di mostri.” È la frase più netta, che spacca in due il tono del monologo: non c’è più spazio per mezze misure. Chi resta in silenzio, chi accetta per convenienza o paura, diventa parte del problema. Se ti amassi, tacerei. Ma io ti amo, sul serio. È una delle battute più complesse. Un paradosso emotivo potentissimo. Judith afferma che proprio perché ama, non può tacere. Brecht qui capovolge completamente l’idea di amore come sacrificio silenzioso: in tempi malati, amare significa parlare. Anche se fa male.

Il monologo si chiude con uno scatto di lucidità che distrugge ogni illusione: Non dire: ‘In fin dei conti non è che per un paio di settimane’ (...) Non parliamo di disgrazia. Parliamo di vergogna.Non c’è catastrofe improvvisa, non c’è nemmeno pietismo. C’è solo la vergogna muta di chi lascia che le cose accadano. E il mantello di pelliccia che “non servirà prima dell’inverno” è la beffa finale: un oggetto di lusso, fuori luogo, incapace di proteggere da ciò che sta arrivando.

Conclusione

In questo monologo, Brecht toglie ogni impalcatura teatrale per lasciar parlare la coscienza di una donna sola, lucida, innamorata ma delusa, che sta prendendo atto di una realtà più grande di lei. La moglie ebrea non è un personaggio tragico nel senso classico. È una persona concreta che si scontra con una macchina invisibile fatta di codardia, convenzioni sociali, paura.

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