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~ LA REDAZIONE DI RC
Siamo nel cuore del film "STRAW - Senza uscita" e Janiyah è ormai oltre il punto di non ritorno. Questo monologo arriva come una valvola che esplode sotto troppa pressione. È un momento one take, uno sfogo che non ha niente di teatrale o costruito. Non è scritto per far effetto, ma per far male. Qui, la parola chiave è accumulo: di ingiustizie, frustrazione, fatica e solitudine. È un flusso di coscienza più che un vero discorso, ed è proprio questa la sua forza. Dal punto di vista narrativo, siamo davanti a un momento in cui il film fa un passo indietro dalla struttura thriller per abbracciare il dramma puro, lasciando spazio solo alla voce e al volto di una madre disperata.
MINUTAGGIO: 51:00-54:13
RUOLO: Janiyah
ATTRICE: Taraji P. Henson
DOVE: Netflix
ITALIANO
Mi darai una mano col mio capo? Crede che abbia organizzato io la rapina al negozio? Quell’uomo ha derubato me, e mi ha colpito, solo perché ha letto il nome sulla targhetta. Il mio capo ha detto che mi conosceva e che io l’avevo chiamato. Mi ha licenziato, perché mi ha chiamato la scuola, e mi hanno detto di andare, che mia figlia aveva bisogno, e mi ha licenziata. La medicina della mia bambina costa moltissimo, è così’ dura. Io mi faccio in quattro, faccio due lavori, me la cavo a malapena. Volevo fare la cosa giusta per la mia bambina, è tutto qua. Mel’hanno tolta, perché è caduta durante il bagno, perché è malata. Ha perso l’equilibrio, voleva solo… lei vuole lavarsi sempre da sola. E’ caduta, aveva dei lividi sulla schiena, mi hanno incolpata. Me l’hanno tolta, senza esitare. Mi hanno buttata fuori. Mi hanno buttata fuori, oggi non abbiamo una casa in cui vivere. La medicina di mia figlia… è stata buttata sulla strada. E gliel’ho detto… le ho detto: “”Mi hanno licenziata, il capo mi manderà l’assegno per posta”. Non poteva aspettare tre giorni, tre giorni! Tu non hai idea di quanto sia difficile avere cura della mia bambina, con quel poco che guadagno. Procuro solo la metà di quello che le serve, ma alla proprietaria non le interessa. Ci ha buttate fuori con la pioggia. Che le dirò quando torna, come glielo spiego? E’ davvero troppo. Ma ci sono solo io. Non importa a nessuno, nessuno, nessuno ci vede. E’ questa la mia vita. Sempre uguale, uguale… uguale… Come devo fare, lo so…. Tu lo riesci a capire, non è vero? Non ho niente.
Straw - Senza uscita è uno di quei film che ti fanno desiderare che qualcuno, da qualche parte nella writers’ room, avesse detto: “Ehi, forse stiamo esagerando”. Ma prima di tirare le somme, conviene davvero andare per gradi, perché il film qualche appiglio per una lettura interessante ce lo offre. Solo che poi... ci inciampa sopra. Straw - Senza uscita è un film caricato di tensione emotiva, incorniciato da un'estetica sobria e quasi claustrofobica, che punta tutto sulla spirale discendente di una protagonista lasciata sola contro il mondo. Il personaggio di Janiyah, madre single in bilico su una vita che si sgretola a ogni scena, è costruito con una progressione talmente esasperata da risultare quasi caricaturale. Sfratto imminente, figlia malata, capo assente e poi licenziamento, razzismo istituzionale, una rapina tragica al market e infine una visita in banca che sfocia in un’accusa di tentata rapina. Ecco, il film anziché dosare gli eventi per creare tensione reale, li ammassa per generare pietà, forzando l'empatia dello spettatore a suon di colpi bassi.
Visivamente, Straw è compatto: ambienti stretti, caldo opprimente reso da un sound design che enfatizza il ronzio dei ventilatori, e un’atmosfera che vuole essere soffocante. C'è un’idea chiara dietro: rappresentare il collasso emotivo come percorso fisico, quasi viscerale. Però manca la progressione psicologica vera, quella che ti fa percepire ogni scelta della protagonista come inevitabile. Qui invece le azioni di Janiyah risultano spesso slegate, più reazioni impulsive che esiti coerenti di una crisi interiore. Straw - Senza uscita è un film che vive e muore sul volto di Taraji P. Henson.
Il monologo non segue una linea narrativa pulita. Janiyah salta da un evento all’altro, come se ogni nuova frase le ricordasse un’altra ferita. Questo ci dice moltissimo sul suo stato mentale: è confusa, esausta, esausta per davvero, e non ha più il controllo del tempo, né del racconto. È in un loop emotivo, che si riflette anche nella ripetizione finale: “uguale, uguale… uguale”. Il monologo si sviluppa in tre blocchi emotivi:
Sopraffazione istituzionale – La scuola, il capo, il poliziotto, i servizi sociali. Ogni figura di potere inizia con una promessa di supporto e finisce per tradirla. Qui il film tocca un nodo forte: la burocrazia senza volto che trasforma il disagio in colpa.
Il trauma della separazione – Quando Janiyah racconta di come le abbiano tolto la figlia, il tono cambia. La voce si spezza, i tempi si dilatano. Non c’è solo rabbia, qui. C’è impotenza, c’è l’umiliazione di essere ritenuta inadeguata proprio dove dovrebbe contare di più: come madre.
Il punto cieco della società – “Non importa a nessuno, nessuno, nessuno ci vede.” Qui il monologo si apre al messaggio più ampio del film: l’invisibilità sociale. Non è solo la povertà a schiacciare Janiyah, ma il silenzio attorno a lei. È la totale assenza di una rete.
La forza del monologo sta anche nella sua semplicità. Nessun artificio retorico, nessuna frase costruita. Solo parole quotidiane, dette di getto, come si direbbero a un amico o a uno sconosciuto in un momento di collasso. Questo lo rende spiazzante: la sua crudezza non è cercata, è reale.
Questo monologo non è un grido per chiedere aiuto. È uno specchio rotto in cui Janiyah guarda la propria vita e cerca invano di ricomporne i frammenti. Ed è qui che il film, pur con tutti i suoi difetti strutturali, centra il bersaglio: ci ricorda che esiste un’umanità costretta a urlare per essere ascoltata, e spesso neanche così ci riesce. Un momento sporco, imperfetto, ma vero.
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