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~ LA REDAZIONE DI RC
Siamo in una fase avanzata del film, quando il personaggio di Fortunata inizia a crollare sotto il peso della propria storia. Fortunata rompe un silenzio lungo una vita: parla per la prima volta in modo esplicito del padre tossicodipendente e di un episodio traumatico dell’infanzia che l’ha segnata. È un racconto che emerge a strattoni, in dialetto, tra frasi spezzate e ripetizioni — non come un ricordo elaborato, ma come una ferita che ancora sanguina. Non è solo una confessione: è una resa emotiva, un attacco, un’autodifesa.
MINUTAGGIO: 1:22:00-1:22:50
RUOLO: Fortunata
ATTRICE: Jasmine Trinca
DOVE: Netflix
Non l’ha ammazzata. non l’ha ammazzata! Non l’ha ammazzata! Non l’ho ammazzato! No! L’ho lasciato morire. Ho affogato papà. Diceva… “Annamo ar mare. Annamo a giocà”. S’annava a drogà ar mare. S’annava a droga ar mare. E me nascondeva la roba sotto i vestiti. Avevo ‘na paura. C’avevo una paura… una paura… L’ho visto cade, a faccia sotto. Tutte ‘e vorte l’ho visto cade. Gli è entrata tutta l’acqua nel naso, nella bocca… L’ho lasciato affogà. C’avevo paura. Allora… Ho ricominicato a giocà. E manco piangevo. Manco piangevo. E che c’avevo colpa? C’ha colpa, una ragazzina de otto anni? Per te c’ha colpa?
Fortunata è un film del 2017 diretto da Sergio Castellitto, scritto da Margaret Mazzantini. È uno di quei film che si muove tutto su una linea emotiva fortissima, quasi brutale a tratti, e che ha al centro una figura femminile che non chiede permesso a nessuno per esistere. Fortunata è una parrucchiera di borgata. Vive a Roma, in un quartiere popolare. Fa tagli a domicilio, si muove con la sua bambina (Barbara) per mano e una rabbia costante sotto pelle. È separata da un marito violento e oppressivo (Franco), che continua a intralciare la sua vita, usando anche la figlia come leva psicologica.
Lei sogna di aprire un salone tutto suo. Ha già in mente il nome, ha già le idee chiare su come dovrà essere. Ma il sogno è continuamente messo in discussione dalla realtà: dai soldi che mancano, da un sistema che non la sostiene, dai ruoli sociali che la tengono incastrata. Nella sua vita c'è anche Chicano, un amico d'infanzia borderline, con disturbi mentali e comportamenti imprevedibili. Un personaggio che rappresenta una forma d’amore sbilenca, mai del tutto innocua.
A un certo punto entra in scena Patrizio, uno psicologo infantile che segue la figlia di Fortunata. È un uomo colto, riflessivo, che incarna tutto quello che Fortunata sembra non essere: equilibrio, cultura, controllo. Tra loro nasce un legame, ambiguo e potente, che si muove fra attrazione e un bisogno reciproco di salvezza. Ma anche questo rapporto è destinato a rivelare crepe profonde.
“Non l’ha ammazzata. non l’ha ammazzata! Non l’ha ammazzata! Non l’ho ammazzato!” Il monologo parte con una negazione martellante. La ripetizione isterica (“non l’ha ammazzata” / “non l’ho ammazzato”) evidenzia uno stato di dissociazione. Fortunata si confonde tra la bambina che è stata e la madre che è adesso. Sta parlando di sé ma anche della figlia, della colpa che si tramanda. È un loop che dice già tutto: ha bisogno di convincersi, più che di raccontare.
“L’ho lasciato morire.” Qui arriva il punto: non è un omicidio, ma un abbandono. E il verbo è terribile nella sua semplicità. "Lasciare morire" è diverso da "uccidere": significa che la responsabilità non è nell’azione, ma nell’assenza. E per una bambina di otto anni, questo tipo di "colpa" è un peso mostruoso.
“S’annava a drogà ar mare... e me nascondeva la roba sotto i vestiti.” Questa è forse la parte più violenta. Un padre che usa la figlia come corriere, che sfrutta la sua innocenza. Qui non si parla di un fallimento genitoriale, ma di una perversione strutturale del rapporto padre-figlia. La frase è detta in dialetto, senza filtro, e questo rende tutto più diretto, più concreto, quasi fisico. “L’ho visto cade, a faccia sotto... L’ho lasciato affogà.” È il climax del monologo. Il padre muore affogato e Fortunata lo guarda. Non lo aiuta. Non grida. Non piange. Ha otto anni e “c’ha paura”. Qui il punto non è solo il gesto, ma quello che succede dopo: lei torna a giocare. Come se il trauma fosse stato rimosso all’istante, congelato.
“E manco piangevo. Manco piangevo." La ripetizione fa da eco, ed è anche un giudizio su sé stessa. Fortunata si sta guardando da fuori. Come può una bambina non piangere dopo una cosa così? È come se si stesse processando da sola, come se la sua freddezza fosse la prova definitiva della colpa. “C’ha colpa, una ragazzina de otto anni? Per te c’ha colpa?” La domanda è rivolta allo psicologo, ma attraversa lo schermo e colpisce lo spettatore. È una provocazione: chi siamo noi per giudicare? Cosa avremmo fatto, noi?
Questo monologo è il vero nucleo emotivo di Fortunata. È il momento in cui capiamo che tutto quello che abbiamo visto — la rabbia, l’istinto di sopravvivenza, l’incapacità di amare senza autodistruggersi — ha una radice precisa. Non è solo “un passato difficile”, è un trauma infantile mai guarito, mai elaborato.
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