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~ LA REDAZIONE DI RC
C’è qualcosa di profondamente malinconico in questo monologo, nonostante l’ironia tipica del personaggio. Happy Gilmore ci parla direttamente, come in una chiacchierata tra vecchi amici al bar. Non è solo un escamotage per aggiornare lo spettatore su cosa sia successo nei trent’anni che separano il sequel dall’originale: è un piccolo memoir a cuore aperto, tra la comicità di un videogioco troppo violento e il dramma silenzioso della perdita.
È la voce di un uomo che ha vissuto il sogno, e ora deve convivere col risveglio.
MINUTAGGIO: intro film
RUOLO: Happy Gilmore
ATTORE: Adam Sandler
DOVE: Netflix
Mi chiamo Happy Gilmore. Da bambino desideravo diventare un giocatore di hockey, ma poi trent'anni fa ho preso in mano un bastone da golf e si è rivelata una decisione niente male. Ho sposato una donna meravigliosa di nome Virginia, e abbiamo avuto un figlio di nome Gordy. Le vittorie non sono sempre arrivate come previsto, ma come diceva sempre mia nonna: "A volte è meglio essere fortunati che bravi". Si… di colpi di fortuna io ne ho avuti parecchi, e dopo il quarto maschietto in quattro anni, Virginia ha avuto un'idea geniale per uno spot. Ho provato a fare entrare i miei figli nei tornei di golf ufficiali, ma il loro istinto da giocatore di hockey era troppo forte. Tyger Woods aveva un videogame, così ne abbiamo fatto uno su Happy Gilmore. Forse gli sviluppatori l'avevano fatto troppo realistico. Comunque, ai maschietti era piaciuta quella violenza, ma la bambina si era un pò innervosita. Esatto, finalmente avevamo avuto una bambina, la dolce Vienna. La nuova amica della mamma. Ah, ho presentato il Saturday Night un paio di volte, è stato forte. Si. Andava tutto alla grande, così ho detto a Virginia… "Andiamo in pensione, così potremo stare con i bambini tutto il giorno". Ma nel golf, anche quando sei al massimo della forma, puoi sempre sbagliare un colpo. Dopo il funerale, ho deciso che non avrei mai più preso in mano un bastone da golf. Adesso ero un padre single di cinque figli. C'era una sola cosa che potevo fare… non sono mai stato un grande bevitore, ma l'alcol mi aiutava a dimenticare quello che avevo fatto alla donna più dolce che avessi mai conosciuto. Ah, un'altra cosa… i soldi. Era Virginia a occuparsi delle finanze, quindi senza di lei un sacco di cose sono sfuggite di mano. Poi ho beccato un tipo che voleva scassinare la mia Ferrari. Quel tipo non era un ladro, era un pignolatore. A quanto pare, dovevo rinnovare il leasing. Quel bambinone mi ha fatto causa e io ho perso tutto, compresa la casa di nonna, ed è stato devastante. I ragazzi si sono trasferiti insieme in un nuovo appartamento, e io e Vienna abbiamo trovato un posto più economico. Non è il migliore dei quartieri, ma posso andare a piedi al mio nuovo lavoro.
Un tipo imprevedibile 2 è un film che prende i codici del primo Happy Gilmore del 1996 – commedia sportiva, slapstick, anti-eroe esuberante e politicamente scorretto – e li riporta a galla in un contesto narrativo molto più malinconico, personale e, in un certo senso, disilluso. Non smette di far ridere, certo. Ma sotto i colpi di mazza c’è una sottotrama emotiva che lavora piano, sotto la superficie. Sono passati quasi trent’anni e il personaggio di Adam Sandler non è più quello scapestrato e sbruffone che voleva salvare la casa della nonna col golf. Ora Happy è un uomo stanco, disilluso, segnato dalla perdita della compagna di una vita, Virginia (Julie Bowen), di cui scopriremo il destino attraverso una serie di flashback costruiti con delicatezza (e senza mai premere il pedale del melodramma).
Happy è diventato padre single di cinque figli, tra cui Vienna, interpretata da Sunny Sandler, che rappresenta il cuore pulsante del film. È lei che accende la miccia narrativa, iscrivendosi a una prestigiosa scuola di danza a Parigi – una scelta che non solo richiede soldi, ma soprattutto impone al padre una riflessione seria sul suo fallimento personale ed economico. È qui che Un tipo imprevedibile 2 cambia marcia: la commedia cede spazio al bisogno urgente di redenzione.
Per racimolare i soldi necessari, Happy decide di partecipare a un torneo di golf ad alto rischio, molto più spettacolarizzato (e quasi distopico) di quelli a cui era abituato. È una mossa disperata, certo, ma anche l’unico modo per rimettersi in gioco – letteralmente – dopo anni di apatia e alcolismo. Il film ci mostra brevemente il declino di Happy con un montaggio d’apertura efficace, dove gli anni passano tra lattine di birra, televisori accesi su tornei in cui lui non gioca più e figli che crescono senza una guida presente. Il nuovo “cattivo” è Frank Manatee (Benny Safdie), una figura amara e tossica, costruita con intelligenza per incarnare l’antitesi perfetta di Gilmore: freddo, calcolatore, vendicativo. Safdie non esagera, e proprio per questo il suo Manatee spaventa. È un uomo che ha un conto aperto col passato, e Happy fa parte di quella lista.
In parallelo, rivediamo Shooter McGavin, interpretato ancora una volta da Christopher McDonald, che ormai vive in un manicomio, legge Shining e parla a se stesso come un villain da tragedia greca. Ma in una svolta che funziona più di quanto ci si aspetterebbe, il personaggio attraversa una catarsi che lo porta a diventare – in modo contorto e imprevedibile – un alleato di Happy. È l’ennesima freccia di un film che sa quando abbandonare i cliché per giocare con le regole. Il film è pieno zeppo di camei. Alcuni lampo (Ben Stiller nei panni dell'infermiere Hal del primo film), altri più integrati (Rory McIlroy e Scottie Scheffler nei panni di se stessi), ma il cameo che resta più impresso è quello di Eminem, in un ruolo surreale da motivatore/guru da spogliatoio, tutto incentrato su un monologo pieno di paradossi motivazionali.
Qui si vede il lato “meta” del film: Sandler sa bene che chi guarda Happy Gilmore 2 non è lì per il realismo, ma per rivivere un’idea di cinema che oggi sembra scomparsa. Il film non si vergogna mai di essere ciò che è: una celebrazione del proprio passato e un tentativo di metterlo in dialogo con il presente.
Il monologo si apre con un tono nostalgico ma leggero: “Da bambino desideravo diventare un giocatore di hockey…” È un richiamo diretto alle origini del personaggio, ma anche una dichiarazione d’identità. Happy non è mai stato un vero golfista. È uno che è capitato nel golf per caso. E questo è importante, perché tutta la sua vita – a partire da quel bastone di ferro lanciato sul campo – si è costruita sull’improvvisazione e sulla fortuna. Proprio come diceva sua nonna: “A volte è meglio essere fortunati che bravi.”
Questa frase diventa il motore tematico del monologo (e del film): la differenza tra talento e destino, tra merito e caso. Happy non è un campione tradizionale. È un sopravvissuto. E mentre ci racconta dei figli, dei videogiochi, dei camei al Saturday Night Live, sentiamo una parabola che parte alta e poi inizia, senza far rumore, a scendere. L’uso del tempo passato è costante: “Avevamo avuto una bambina… andava tutto alla grande… ho detto a Virginia…” Queste frasi costruiscono un’aspettativa emotiva: qualcosa sta per rompersi.
E quando arriva il punto di rottura – “Dopo il funerale…” – il tono cambia completamente. La comicità si fa sottile, trattenuta. Happy non esplode mai nel dolore, lo filtra con frasi semplici, quasi banali, ma devastanti nella loro normalità: “Ho deciso che non avrei mai più preso in mano un bastone da golf.” “L’alcol mi aiutava a dimenticare quello che avevo fatto alla donna più dolce che avessi mai conosciuto.”
Qui Sandler gioca su due registri: quello emotivo e quello espressivo. La scrittura è asciutta, quasi didascalica, e proprio per questo colpisce. Il vero colpo al cuore non è l’evento tragico in sé, ma la reazione di Happy: svuotata, colpevole, spenta. È un uomo che ha perso l’amore e, con lui, anche il senso di direzione.
Il colpo di grazia arriva con la questione economica:
“Era Virginia a occuparsi delle finanze…”È qui che il tono tragicomico si fa più netto. La Ferrari sequestrata, il leasing scaduto, il pignoramento della casa della nonna. Tutti elementi raccontati con ironia, ma che costruiscono un senso di discesa progressiva, di frantumazione. Non c’è più niente da difendere, se non un fragile rapporto con la figlia Vienna.
Il monologo di apertura serve a mostrarci chi è diventato Happy Gilmore. E la risposta non è più: un fenomeno del golf. È un padre stanco, un uomo che cerca redenzione, qualcuno che – come molti – ha sbagliato, ha perso, e cerca un’occasione per rimettere insieme i pezzi.
In termini narrativi, è un monologo fondamentale. Non è brillante come quelli dei grandi drammi, non è scritto per essere "memorabile", ma ha un peso umano che funziona proprio perché resta aderente alla voce del personaggio. Non esagera, non pretende lacrime. Ti racconta come stanno le cose. E basta.
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