Monologo di Lorena in “La città proibita”: la resa dei conti di una donna dimenticata

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Il monologo di Lorena, interpretata da Sabrina Ferilli, arriva in un momento emotivamente denso del film La città proibita. È una scena è quasi da commedia familiare, ma in realtà è una valvola di sfogo che rompe gli argini di anni di silenzio e frustrazione. Marcello, suo figlio, è l’unico spettatore, ma la sua presenza è quasi accessoria: Lorena non sta cercando dialogo, sta sputando verità che si sono sedimentate nel tempo. Lo fa con ironia, rabbia e una punta di dolcezza rancida.

Me ne potevo anna anche io

MINUTAGGIO: 30:00-32:40

RUOLO: Lorena

ATTRICE: Sabrina Ferilli

DOVE: Netflix



ITALIANO



34 Marcè, sò 34 anni. E quel coglione a 65 anni si va a riinnamorare un’altra volta. Come se a me la testa non me fosse mai girata? A me, a me. Pensi che alle donne non può succedere, è? L’Americano, te lo ricordi, quello alto, bello, biondo, con quella mascella che pareva Robert Redford te lo ricordi o no? Bellissimo. E’, quello veniva al ristorante e lasciava 100 dollari di mancia. Mi voleva portare in Texas, mi voleva sposare, Marcello. Io a quest’ora avevo i pozzi di petrolio invece di piangere quel fregnone di tuo padre. E il russo? Te lo ricordi il russo? E il regista. Manco di quello ti sei accorto, il regista. Era bravo, mi voleva portare a Hollywood, mi voleva far diventare una star internazionale e sai perché? Perché mi diceva che una con la faccia come la mia dietro una faccia non ci doveva stare, e aveva ragione. Io invece mi ci sono intignata a rimanergli dietro, a dar retta a tuo padre. Tiè… Cinquecento cravatte. Ma mi spieghi un uomo che cazzo ci deve fare con cinquecento cravatte? Non dici niente?

La città proibita

La trama de "La città proibita" si sviluppa come un ibrido tra noir urbano e melodramma familiare, cucito addosso a una struttura narrativa che alterna azione, tensione emotiva e indagine personale. Partendo dal 1995 e arrivando fino al 2025, il film esplora le conseguenze di una scelta familiare forzata dalla politica del figlio unico in Cina, ma lo fa spostandosi su una mappa emotiva che attraversa continenti, relazioni e violenze.

Siamo nella Cina del 1995. Yun e Mei sono due sorelle cresciute in clandestinità affettiva: la prima è la figlia legittima, la seconda quella “invisibile”. In una casa che deve occultare una bambina alla legge, ogni gesto è sottovoce e ogni affetto si consuma nell’ombra. La scelta di educarle alle arti marziali suggerisce che i genitori vogliano dar loro almeno una forma di difesa, non solo fisica, ma anche simbolica: essere forti in un mondo che ti vuole debole.

Mei arriva in Italia con un solo obiettivo: ritrovare Yun. Ma la capitale italiana non si presenta come uno spazio di accoglienza o di risposte: è un labirinto. Il ristorante cinese "Città Proibita", al centro del quartiere Esquilino, è un microcosmo dove si intrecciano cucina, sesso e potere. Dietro le tende rosse e le lanterne decorative si nasconde un sistema di sfruttamento.

Qui Yun ha vissuto il suo declino: da sorella speranzosa a prostituta. Mei è un angelo vendicatore con il volto ancora segnato dal legame affettivo. L'incontro con Wang, figura ambigua e predatrice, innesca la spirale violenta: il corpo di Mei diventa arma, la sua memoria diventa prova.

Quando viene a sapere di Alfredo, la narrazione si biforca. C’è un nuovo testimone, un filo che la porta a Marcello, figlio del ristoratore italiano, e da lì si apre un’indagine che è sia poliziesca che emotiva. Marcello, inizialmente resistente, finisce per diventare partner nel dolore.

Il ritrovamento dei corpi di Yun e Alfredo rappresenta un punto di svolta. Lì il racconto cambia direzione: da vendetta personale a resa dei conti collettiva. Mei sparisce per dare alla sorella la sepoltura che non ha mai potuto avere da viva. Ma il mondo intorno non si ferma. Annibale – amico fraterno di Alfredo – incarna il volto più razionale e spietato del quartiere: l’idea che il controllo del territorio valga più della lealtà.

L’indagine porta infine alla verità: non è Wang ad aver ucciso Alfredo, ma Annibale, spinto da una logica di potere e territorialità. Il colpo di scena non è tanto nella rivelazione del colpevole, ma nel motivo: non il denaro, non la gelosia, ma la paura di perdere l’ultima cosa che dà senso alla propria esistenza. Alfredo voleva abbandonare tutto per amore, mentre Annibale voleva conservare ciò che restava di un mondo in rovina. Wang è semplicemente un altro predatore, ma che si serve del sentimento degli altri per ottenere controllo.

Dopo la confessione di Wang, che muore per mano di Mei in una delle scene più fisiche e drammaticamente coreografate del film, la trama si stringe su Marcello e Annibale. Il giovane affronta l’uomo che ha rovinato la sua famiglia e lo fa non con le mani, ma con le parole. La sua accusa non è un’invettiva morale, ma un elenco di perdite: “hai ucciso un amico, hai distrutto una madre, hai perso anche me”.

Annibale, simbolo tragico di una criminalità "affettiva", si toglie la vita, chiudendo un cerchio che parla di mascolinità tossica, amicizie che diventano prigioni e scelte fatali.

Analisi Monologo

"34 Marcè, sò 34 anni. E quel coglione a 65 anni si va a riinnamorare un’altra volta."

L’attacco è diretto. Lorena chiama il figlio per nome, lo riporta dentro la relazione con il padre, ma lo fa per spostare subito il focus su sé stessa. C’è disprezzo per Alfredo, ma anche stupore: come può un uomo anziano permettersi il lusso dell’amore quando lei, più giovane e bella, ha represso ogni slancio? "Come se a me la testa non me fosse mai girata? A me, a me." Il doppio uso del pronome è un piccolo colpo di scena retorico. Lorena rivendica il diritto di aver desiderato altri, di essersi sentita viva. Non è solo delusione amorosa: è repressione di desiderio. È il bilancio di una donna che ha rinunciato a tutto in nome di una famiglia che ora si è sgretolata.

"L’Americano… Mi voleva portare in Texas… Io a quest’ora avevo i pozzi di petrolio invece di piangere quel fregnone di tuo padre." Questa parte è costruita come un sogno andato in frantumi, ma raccontato con un’ironia quasi da commedia anni ’70. I dettagli – “100 dollari di mancia”, “Texas”, “pozzi di petrolio” – sono volutamente sopra le righe, come a dire: la mia vita avrebbe potuto essere un film, invece è diventata un melodramma da seconda serata. "E il russo?… E il regista… Manco di quello ti sei accorto…" Lorena accumula figure maschili come simboli di occasioni perse, ma la frustrazione vera non è legata a loro. È legata al figlio, alla sua indifferenza, alla cecità maschile in generale. C’è un dolore più profondo dietro: non essere mai stata vista davvero, nemmeno da chi le sta accanto ogni giorno.

"Perché mi diceva che una con la faccia come la mia dietro una faccia non ci doveva stare…" Qui il monologo prende un’altra piega. Il regista non è solo un amante potenziale: è l’unico che ha intuito il suo valore al di là dell’apparenza. È uno di quei momenti in cui una battuta racconta un’intera vita compressa in una frase. Lorena è bella, ma dietro quella bellezza ha nascosto sogni, carattere, talento. Ed è stanca di nascondersi. "Cinquecento cravatte. Ma mi spieghi un uomo che cazzo ci deve fare con cinquecento cravatte?" Il finale è tragico e comico insieme. È l’oggetto che diventa metafora: Alfredo ha speso una vita a collezionare inutilità, e lei ha speso la sua dietro un uomo che ha investito sul nulla. La cravatta, simbolo di mascolinità e apparenza, si rivela assurda e vuota. Il gesto di sdegno – "Tiè" – è il vero punto di chiusura: Lorena non chiede più conferme, sta finalmente buttando tutto fuori.

Conclusione

Lorena è bella, ma dietro quella bellezza ha nascosto sogni, carattere, talento. Ed è stanca di nascondersi. "Cinquecento cravatte. Ma mi spieghi un uomo che cazzo ci deve fare con cinquecento cravatte?" Il finale è tragico e comico insieme. È l’oggetto che diventa metafora: Alfredo ha speso una vita a collezionare inutilità, e lei ha speso la sua dietro un uomo che ha investito sul nulla. La cravatta, simbolo di mascolinità e apparenza, si rivela assurda e vuota. Il gesto di sdegno – "Tiè" – è il vero punto di chiusura: Lorena non chiede più conferme, sta finalmente buttando tutto fuori.

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