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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo arriva in un punto delicato della narrazione di “La città proibita”: Alfredo è morto, e i personaggi stanno lentamente facendo i conti con le assenze. Marcello è un ragazzo disorientato, carico di rabbia e frustrazione, ma in questa scena, abbassa la guardia. Parla del padre come se fosse ancora lì, usando l'arma dell'ironia per sopravvivere al dolore. È in una trattoria o forse a casa, si siede, come se parlasse a se stesso, oppure a Mei o alla madre, ma in realtà parla al ricordo.
MINUTAGGIO: 2:00:00-2:01:57
RUOLO: Marcello
ATTORE: Enrico Borello
DOVE: Netflix
ITALIANO
Pure lui, voleva sempre la matriciana, se avesse potuto. Pranzo e cena, posso? (Si siede) Però non la digeriva. Gli restava sullo stomaco. La notte era un tormento. Ti ricordi? Che ci costringeva a portarlo al pronto soccorso, perché si pensava che stava morendo: mal di testa, Pronto Soccorso; un dolore al braccio: infarto, pronto soccorso. Si faceva un taglietto? Tetano. Pronto Soccorso, e poi voleva sempre che gli facevano sta cazzo di radiografia, “per sicurezza”. E quanto si incazzava quando gli dicevano che non aveva niente, e gli cominciava a di:”Ma che state a dì. Ma questi non sò medici. Queste sò braccia rubate all’agricoltura“.
Partiamo dalla premessa narrativa: due sorelle, Yun e Mei, cresciute nell’ombra della politica del figlio unico cinese, una misura che negli anni ’90 costrinse molte famiglie a scelte estreme. E il film apre proprio con questo taglio: una colpa originale che genera tutta la catena degli eventi. Yun è la sorella visibile, Mei quella nascosta, e questa dualità sarà il cuore pulsante di tutta la storia. Entrambe vengono cresciute con disciplina nelle arti marziali, ma prendono strade diversissime.
Nel 2025, Mei arriva a Roma, in un quartiere che esiste davvero, l’Esquilino, punto d’incontro tra la romanità più storica e la Cina contemporanea. La sua indagine la porta subito dentro un microcosmo fatto di prostituzione, malaffare e traffici oscuri: il ristorante "Città proibita" – che dà il titolo al film – è una specie di antro infernale dove il cibo è solo il primo strato di un sistema molto più profondo.
Qui conosciamo Wang, boss cinese ambiguo, e soprattutto scopriamo che Yun ha fatto una brutta fine. Il film inizia a mescolare i generi: parte come un noir d'indagine, ma prende presto le tinte del revenge movie. È interessante come il regista utilizzi lo scontro fisico come linguaggio: Mei non parla molto, agisce. E ogni sua lotta è una traduzione fisica del suo dolore.
Quando entra in scena la famiglia italiana, la storia cambia ritmo e profondità. Alfredo, Lorena e Marcello sono una famiglia apparentemente normale, ma incrinata da assenze, gelosie e bugie. Alfredo, che aveva provato a salvare Yun, è diventato il fulcro di una tragedia intergenerazionale.
Il rapporto tra Mei e Marcello è inizialmente scontroso, poi evolve. Non è una storia d’amore canonica: è una ricerca comune di verità, ed è attraverso quella che si crea il loro legame. Un’altra chiave di lettura interessante è quella del doppio culturale: Roma e Pechino, la trattoria e il bordello, la cucina italiana e quella cinese, la vendetta e la giustizia. Il cuore emotivo del film è nel flashback raccontato da Wang morente: lì tutto si ricompone. Alfredo voleva salvare Yun e vendere la trattoria, ma Annibale — personaggio tragico, quasi shakespeariano — uccide l’amico per paura di perdere il proprio regno, per quanto modesto.
E qui il film mette in scena la vera tragedia: nessuno ha voluto davvero il male, ma le piccole meschinità e i grandi egoismi hanno costruito un meccanismo irreversibile. La morte di Alfredo e Yun è il frutto di una collisione tra due mondi incapaci di dialogare, uniti solo dall’amore clandestino e dalle occasioni mancate.
Annibale, personaggio a metà tra il gangster e il reduce, diventa simbolo di una Roma che si sente invasa e non capisce più se stessa. Il suo suicidio non è un gesto romantico, ma una resa, un ammettere che ha perso il controllo su tutto ciò che amava.
"Pure lui, voleva sempre la matriciana, se avesse potuto. Pranzo e cena, posso?" Qui c’è già tutto. Un padre abitudinario, goloso, testardo. Il cibo – la matriciana – non è solo un piatto: è un simbolo identitario. Alfredo è romano, radicato nella sua cultura e nei suoi gusti, ma anche incapace di rinunciare a ciò che gli fa male. La battuta “posso?” è quasi un dialogo a due, come se Marcello si autoconcedesse lo spazio per ricordare. "Però non la digeriva. Gli restava sullo stomaco. La notte era un tormento." Una frase apparentemente leggera, ma che racconta moltissimo. Alfredo era uno che si ostinava, anche a costo di soffrire. C’è testardaggine, c’è negazione del limite. Voleva la vita a modo suo, anche quando il corpo diceva il contrario.
"Ti ricordi? Che ci costringeva a portarlo al pronto soccorso, perché si pensava che stava morendo: mal di testa, Pronto Soccorso; un dolore al braccio: infarto, pronto soccorso." Marcello qui costruisce un catalogo delle paranoie del padre. Si ride, ma si capisce anche quanto fosse difficile stargli accanto. Eppure, c’è affetto in ogni parola. È il tipico ritratto del parente “rompiscatole”, ma amato lo stesso. La ripetizione “pronto soccorso” è un ritmo comico, quasi musicale, che scandisce l’ansia ipocondriaca di Alfredo. "Si faceva un taglietto? Tetano. Pronto Soccorso, e poi voleva sempre che gli facevano sta cazzo di radiografia, 'per sicurezza'." Il tono qui è quasi da cabaret romano, ma mai farsesco. Le manie di Alfredo diventano una forma di insicurezza, il bisogno continuo di essere rassicurato. La radiografia “per sicurezza” è emblematica: la paura che qualcosa stia sempre andando storto, anche quando va tutto bene.
"E quanto si incazzava quando gli dicevano che non aveva niente, e gli cominciava a di: 'Ma che state a dì. Ma questi non sò medici. Queste sò braccia rubate all’agricoltura'." Alfredo voleva essere malato, perché forse solo da malato si sentiva davvero accudito. La battuta finale è quella di un uomo che preferiva aver ragione anche contro la realtà, tipico di una generazione cresciuta nel sospetto, nel “meglio esagerare”.
Marcello parla così per non crollare, per non essere travolto. In fondo, è un figlio che sta imparando a riconoscere l’uomo dentro il padre, con tutti i suoi difetti. È una scena in cui l’umorismo serve a tenere insieme l’affetto e il rancore, il lutto e la nostalgia. Un momento piccolo, ma denso, in cui il personaggio passa da ragazzo a uomo.
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