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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo arriva all’inizio del film “Sul più bello” e ha un compito fondamentale: farci entrare immediatamente nella testa di Marta. È una dichiarazione d’intenti. Non è solo un voice-over di presentazione, è un modo per dirci: “Scordatevi i cliché, qui la storia si gioca con altre regole”. Marta ci parla direttamente, come se stesse rompendo la quarta parete, e lo fa usando un linguaggio quotidiano, pieno di riferimenti pop e di un umorismo asciutto che serve da scudo alla realtà dura che sta per svelare.
L’effetto è quello di un antieroe romantico che gioca in difesa, ma con le parole ti prende alla gola.
MINUTAGGIO: 2:45:07-7:00
RUOLO: Marta
ATTRICE: Ludovica Francesconi
DOVE: Netflix
ITALIANO
Avete presente tutte quelle storie che si raccontano alle bambine? Tipo che il brutto anatroccolo un giorno diventerà cigno e che i bruchi alla fine si trasformano in farfalle? Beh… Io alla fine… sono rimasta bruco. Ma non dispiacetevi per me, perché… fidatevi, il peggio deve ancora arrivare. Per fortuna ci sono gli amici. Jacopo. Jacopo non è alla moda. Jacopo è la moda. E fin da piccolo la sua missione era chiara: combattere il cattivo gusto. Federica. Se la chiami Fede ti dà una testata. Ha fatto coming out quando aveva 13 anni. Sempre stata “delicata”, poveri genitori. Ma almeno possono consolarsi pensando di aver allevato un genio della matematica. Ha inventato un metodo per contare le carte a poker, e sta sbancando tutte le bische clandestine della città. Alla fine ho perso la stanza più grande, però non dispiacetevi per me. Il peggio non è ancora arrivato, ma manca poco. I miei genitori sono morti quando avevo 3 anni, incidente d’auto. Sono loro che mi hanno lasciato in eredità questa casa, e una malattia genetica rara, con un nome per cui non li ringrazierà mai abbastanza: la monoviscidosi. Niente di drammatico, è. Solo che se non prendi gli enzimi ad ogni pasto, se non fai gli aerosol e la fisioterapia respiratoria, e se non eviti i luoghi umidi e pieni di germi, ti si riempiono i polmoni di muco, ti becchi un’infezione e… beh, muori. Questo è il momento in cui potete dispiacervi per me. Insomma, li avete visti tutti quei film in cui l’eroina ha una malattia terminale, ma nonostante la chemio e i respiratori è una gnocca spaziale e infatti si fidanza col più figo della scuola? Ecco, non è il mio film.
“Sul più bello” è un film italiano del 2020 diretto da Alice Filippi, tratto dall’omonimo romanzo di Eleonora Gaggero. È una commedia romantica che cerca di fondere due elementi spesso trattati in maniera separata nel nostro cinema: il mondo adolescenziale e la malattia, ma con un tono dichiaratamente pop e leggero. La protagonista è Marta (interpretata da Ludovica Francesconi), una ragazza di 19 anni affetta da una grave malattia genetica, la fibrosi cistica. Ma Marta è vivace, ironica, buffa, sfrontata. In un certo senso è più viva degli altri, e ha una missione tutta sua: innamorarsi del ragazzo più bello di tutti.
Marta vive con i suoi due migliori amici, Jacopo e Federica. Un trio affiatato e protettivo, ma che lei stessa fatica a coinvolgere davvero nei suoi desideri più intimi. Proprio per questo, quando incontra Arturo (Giuseppe Maggio), il classico ragazzo affascinante, ricco, distante e ben inserito nel mondo borghese torinese, Marta vede in lui il suo “bersaglio”.
L’intera struttura del film si costruisce intorno a questa dinamica: Marta che, pur consapevole della sua condizione, vuole vivere una storia d’amore “normale”, con tutte le illusioni, gli inciampi e i colpi di scena tipici delle commedie sentimentali. Arturo inizialmente la frequenta per gioco, con un misto di superficialità e attrazione, ma il contatto con la vitalità di Marta lo mette a disagio, lo interroga.
Quello che sembra partire come un racconto convenzionale (la ragazza invisibile che conquista il principe) in realtà gioca spesso con i codici della commedia romantica americana, ma filtrati attraverso un gusto estetico volutamente pop e giovanile, quasi da teen drama.
Il monologo si costruisce su un doppio registro costante: da una parte c’è la favola (anatroccoli, farfalle, eroine cinematografiche), dall’altra c’è Marta, che rifiuta quei modelli. Dice: “Beh… Io alla fine… sono rimasta bruco.” Questa frase è tutto. È auto-definizione e atto di resistenza allo stesso tempo. Lei non si è trasformata. Non ha avuto il “glow up”, non è diventata la ragazza da copertina. È rimasta “bruco”. Ma lo dice senza vittimismo, anzi. Poi aggiunge: “Ma non dispiacetevi per me, perché… fidatevi, il peggio deve ancora arrivare.” Qui la scrittura usa la tecnica del rovesciamento comico per raccontare qualcosa di tragico. Marta ironizza sul proprio destino per prendere il controllo della narrazione. E questa è già una forma di ribellione, soprattutto nel contesto cinematografico dove il dolore femminile viene spesso estetizzato.
Subito dopo, Marta introduce i suoi amici: Jacopo e Federica. E qui il tono cambia ancora. Diventa quasi da sitcom, con battute che sembrano uscite da un teen drama scanzonato: “Jacopo non è alla moda. Jacopo è la moda.” “Federica. Se la chiami Fede ti dà una testata.” In poche righe, costruisce due personaggi perfettamente riconoscibili, e ci fa capire che la loro esistenza è fondamentale per la sua sopravvivenza emotiva. Anche se lei non lo dice esplicitamente, è chiaro che quei due rappresentano una famiglia scelta, un luogo sicuro.
Poi arriva il nucleo più cupo del monologo, anticipato con la frase: “Il peggio non è ancora arrivato, ma manca poco.” E qui c’è un passaggio decisivo. Marta ci racconta del lutto (la perdita dei genitori), e subito dopo della malattia, descritta in modo clinico ma sempre con quella vena sarcastica: “...una malattia genetica rara, con un nome per cui non li ringrazierà mai abbastanza: la monoviscidosi.” Da notare come l’ironia serva a mantenere la distanza emotiva. Marta non vuole che lo spettatore provi pietà. Lo dice esplicitamente:
“Questo è il momento in cui potete dispiacervi per me.” Questa frase è una provocazione. Sta smascherando il meccanismo emotivo del cinema: quello che ci spinge a empatizzare solo quando le cose diventano drammatiche in un certo modo. Lei ce lo dice prima che possiamo farlo. Ci toglie il potere di decidere “quando” dispiacerci. Ed è potente.
Chiude con la stoccata finale: “Ecco, non è il mio film.” Che è un modo per dire: “Non aspettatevi la solita favola. Non ci sarà il makeover, non ci sarà il principe. Quella roba lì è scritta per qualcun altro, non per me.”
Con questo monologo, Marta si presenta come una voce fuori dal coro nel panorama delle protagoniste romantiche. Il suo modo di raccontarsi è un misto di sarcasmo e verità cruda, e il suo obiettivo non è farsi amare dallo spettatore, ma farsi capire alle sue condizioni.
È un monologo scritto per disinnescare lo stereotipo della ragazza malata trasformata in icona di bellezza dolente. Marta non ci sta. Non vuole pietà, non vuole illusioni. Vuole raccontare la sua storia con le parole che sceglie lei, anche se fanno ridere nei momenti sbagliati, o se fanno male nei momenti giusti.
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