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~ LA REDAZIONE DI RC
Nel contesto della serie Gerri, Giacomo Longo è un sospettato eccellente: brillante, manipolatore, e con una capacità quasi teatrale di ribaltare la percezione della realtà. In questo monologo, pronunciato durante un interrogatorio dopo il suo arresto, Longo si smarca dalla responsabilità di un omicidio e compie una mossa narrativa precisa: sposta l’attenzione su sua madre. E lo fa introducendo un concetto psicoanalitico raro e poco usato nella fiction: il Complesso di Giocasta.
MINUTAGGIO: 1:33:00-1:34:56
RUOLO: Giacomo longo
ATTORE: Andrea Fuorto
DOVE: Netflix
ITALIANO
Se avessi sparato io quell’ispettore non sarebbe più in giro a rompere i coglioni. E’ vero, mi piace ascoltare le cazzate che si dicono queste persone che si credono tanto intelligenti solo perché hanno studiato. Niente che serva a qualcosa con la vita reale, è? Ma qualcosa di interessante ogni tanto c’è. Per esempio, avete mai sentito parlare del Complesso di Giocasta? Il Complesso di Edipo, ma visto dall’altra parte. E’ l’impulso sessuale inconscio di una madre verso il proprio figlio. Visto che è un desiderio impossibile, la madre Giocasta lo sublima difendendo il proprio figlio da ogni male, con tutto il suo potere di femmina Alfa. Gli ripete continuamente che lui può fare tutto quello che vuole. Il problema è che non è così, non può assolutamente fare tutto quello che vuole. E quando il figlio la scopre cominciano i problemi. La mamma Giocasta difende suo figlio anche contro quelli che vedono in lui qualcosa che non va, e provano ad aiutarlo. Lo difende anche quando lui stesso non vuole essere difeso, perché ha capito che il male è dentro di lui. E non può più nasconderlo. Pur di proteggere il figlio, questo tipo di madre può arrivare persino a uccidere, perché se la creatura a cui hai dato tutto è un mostro, questo cosa fa di te?
La serie "Gerri" si muove su un equilibrio delicato tra poliziesco e ritratto intimo di un personaggio pieno di contraddizioni. Gregorio Esposito, detto appunto Gerri, è un ispettore che porta con sé una doppia eredità: quella culturale, legata alle sue origini Rom, e quella emotiva, molto più oscura e personale, che affonda le radici in un’infanzia segnata dall’abbandono e dal silenzio. Ambientata tra le campagne e le cittadine della Puglia, la serie sfrutta una cornice geografica poco esplorata nel crime italiano, donando ai casi investigativi un’atmosfera calda, polverosa, quasi arsa, che riflette lo stato interiore del protagonista. La Puglia non è solo sfondo: è una terra di confini e contrasti, come quelli che abitano Gerri.
Il primo è quello delle indagini: ogni episodio (o arco narrativo, se parliamo di una serie orizzontale) segue un caso da risolvere, e qui entra in gioco il fiuto di Gerri, la sua capacità di vedere quello che altri non vedono, di entrare nelle pieghe nascoste delle vite altrui. Ma c’è un prezzo: Gerri non riesce a mantenere il distacco. Ogni caso diventa personale, ogni vittima è un riflesso di qualcosa che lo riguarda. Il secondo binario è quello personale, ed è quello che dà profondità alla serie. C’è un buco nero nel passato di Gerri, qualcosa che non è mai stato detto, né a lui né da lui. Un’identità parziale, una memoria frammentata che ha radici in una casa famiglia ai margini del Vesuvio. Ed è qui che entra in scena Marinetti, figura paterna, burbero ma affettuoso, che decide di fare quello che Gerri non ha mai avuto il coraggio di fare: cercare risposte.
"Se avessi sparato io quell’ispettore non sarebbe più in giro a rompere i coglioni."
L’apertura è secca, sprezzante. Longo mette subito le cose in chiaro: se fosse stato lui, non ci sarebbero stati errori. È una dichiarazione di superiorità, ma anche un modo per suggerire che chi ha sparato – sua madre, secondo lui – ha agito per impulso e non per calcolo. Inizia così la strategia di “dissociazione” dal crimine, che però non è una semplice difesa. È un’accusa rovesciata. "Avete mai sentito parlare del Complesso di Giocasta?" Qui Longo cambia tono. Usa la cultura – che inizialmente disprezza – come arma. Sfrutta la teoria freudiana per descrivere una relazione tossica madre-figlio, in cui la madre, guidata da un amore totalizzante e inconscio, distrugge ogni tentativo del figlio di staccarsi da lei. Non stiamo parlando solo di una madre iperprotettiva: qui la dinamica è quasi mitologica, tragica. Longo si presenta come vittima di un amore “deviato”, che lo ha reso un oggetto da difendere a ogni costo. Il figlio come proiezione narcisistica, e quando la proiezione vacilla, la madre agisce per ripristinare l’illusione.
"Pur di proteggere il figlio, questo tipo di madre può arrivare persino a uccidere..." Qui si arriva al cuore del monologo. Longo non dice esplicitamente “è stata mia madre a uccidere”, ma lo lascia intendere con un’eleganza crudele. La domanda finale è un colpo di bisturi: "...perché se la creatura a cui hai dato tutto è un mostro, questo cosa fa di te?" In questa frase c’è il peso di una verità che Giacomo non ha il coraggio di sostenere da solo. Non sta solo accusando la madre: sta dicendo che il mostro è lui, e che sua madre ha ucciso per proteggerlo. La colpa non è totalmente sua, ma non è neanche completamente della madre. È una colpa condivisa, generata da un legame simbiotico e devastante.
Questo monologo è un ottimo esempio di scrittura che lavora sul limite tra confessione e manipolazione. Giacomo Longo non chiede empatia, né cerca il perdono. Costruisce invece una narrazione in cui il colpevole cambia forma e identità, ma senza che il peso della colpa si dissolva. Anzi, si amplifica.
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