Monologo maschile - Massimiliano Rossi in \"Il Nibbio\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Siamo in una delle scene più toccanti de Il Nibbio. Il direttore de Il Manifesto si ritrova a dover comunicare, in modo immediato e crudo, quanto accaduto: l’uccisione di Nicola Calipari da parte di soldati americani, appena dopo la liberazione di Giuliana Sgrena. Non è una conferenza stampa, non è un momento costruito per la scena madre. È un flusso improvviso, un’esplosione di realtà — parole che inciampano, intercalari che tradiscono la fatica emotiva, frasi che non riescono a stare composte. Ed è proprio in questo modo che questo monologo si impone come uno dei passaggi più intensi del film.

Il monologo arriva a bruciapelo, quasi senza essere annunciato. Il direttore è sconvolto. Riceve la notizia in un momento in cui la tensione sembrava in fase discendente: Giuliana è stata liberata, l’incubo sembra finito. Ma la tragedia si presenta sotto forma di un errore assurdo, che spezza l’unico sollievo possibile.

Nicola Calipari è morto

MINUTAGGIO: 1:38:00-1:39:00

RUOLO: Direttore del Manifesto

ATTRICE: Massimiliano Rossi

DOVE: Netflix

ITALIANO

Adesso ve lo dico, ispettore, adesso ve lo dico. Niente, compagni, è successo un casino. Gli americani gli hanno sparato addosso. Stavano andando all’aeroporto e… erano… in tre in macchina. Due dei servizi più Giuliana e… e a un certo punto è partita una raffica. Giuliana è ferita, ma sta bene e… l’altro dei servizi è ferito e… Nicola Caripari è morto. Quello che l’ha… quello che l’ha liberata è morto. Il mediatore. Tra l’altro sembra che questo poveraccio l’ha… l’ha salvata, una seconda volta, perché… si è messo davanti e l’ha presa tutta… Nicola Calipari era una brava persona.

Il Nibbio

Il film “Il Nibbio” si muove lungo una linea narrativa precisa, tesa e dolorosa, come un filo d’acciaio che tiene in equilibrio, scena dopo scena, il valore di una vita e il peso di una scelta. Non è un film che cerca la commozione facile: cerca la responsabilità, personale e collettiva. Ed è in questo contesto che prende forma la trama, costruita con passo sobrio, su base reale e con un’attenzione chirurgica al contesto storico-politico.

Roma, 4 febbraio 2005. Nicola Calipari (interpretato da Claudio Santamaria) sta per partire in vacanza con la sua famiglia. È un momento di sospensione, quel tipo di pausa che spesso nella narrazione coincide con il primo segnale che qualcosa sta per cambiare. Ed è così: una telefonata lo richiama a Roma. Giuliana Sgrena, giornalista de Il Manifesto, è stata rapita a Baghdad da un commando sunnita.

Qui si apre la vera storia. Calipari viene reinserito nel cuore operativo del SISMI con un mandato: riportare a casa Giuliana viva. Per 28 giorni si muove tra Roma e Baghdad, tra contatti istituzionali, trattative delicate e un contesto geopolitico instabile, quasi sempre ostile.

Il film si costruisce su una tensione costante, che non viene mai appiattita in un thriller hollywoodiano, ma nemmeno svuotata dalla sua dimensione emotiva. Calipari è presentato come un uomo profondamente coscienzioso, senza eroismi da copione, che prende il carico della sua missione sulle spalle senza mai sollevarsi come simbolo. E questa è una delle scelte più interessanti del film: la narrazione tiene lontano il personaggio da ogni forma di mitizzazione.

Parallelamente, vediamo Giuliana Sgrena prigioniera, spaventata ma lucida, e le figure che orbitano intorno al tentativo di liberarla: il direttore de Il Manifesto, il compagno della giornalista, membri dell’intelligence e delle istituzioni. È un mosaico che lentamente si compone, senza accelerazioni narrative, fino ad arrivare al punto più tragico: il ritorno in patria, la liberazione di Giuliana, e l’uccisione di Calipari da parte di un soldato statunitense al checkpoint di Baghdad.

L’uccisione di Calipari è mostrata come un incidente irreparabile, figlio di incompetenza e rigidità, non di un complotto. Eppure, la sensazione che resta è quella di un uomo sacrificato da un sistema cieco, o quantomeno disinteressato al contesto umano di quella vicenda.

Analisi Monologo

"Adesso ve lo dico, ispettore, adesso ve lo dico." La ripetizione è già un segnale: il direttore ha bisogno di dirlo, ma non sa bene come. L’informazione è ancora troppo calda per essere trasformata in discorso ufficiale. Il tono è dimesso, sbilanciato, in parte trattenuto e in parte strabordante. Questa struttura “sporca” è perfetta per il contesto: non si tratta di un monologo scritto per commuovere o informare, ma per reagire. E la reazione è autentica. Non c’è alcuna compostezza istituzionale, solo rabbia, dolore e sgomento.

Il cuore del monologo è tutto nella descrizione dell'accaduto. "Gli americani gli hanno sparato addosso. Stavano andando all’aeroporto..." Sono frasi scarne, quasi cronachistiche, ma lo stile con cui sono dette le priva di neutralità. Non è il resoconto oggettivo di un fatto. È un'informazione che si trasforma in tragedia mentre viene detta. Il tono si rompe sul dettaglio più crudele: "Quello che l’ha liberata è morto."

Questa frase è il punto di non ritorno. Una sintesi bruciante che rimette tutto in discussione. E proprio lì arriva il colpo più forte: "Tra l’altro sembra che questo poveraccio l’ha… l’ha salvata, una seconda volta." Questa ripetizione della salvezza — prima nel contesto della liberazione, poi nel corpo che si frappone alla raffica — è il vero perno emotivo della scena. Calipari diventa, nella bocca del direttore, non un funzionario caduto, ma un uomo che si è letteralmente messo in mezzo alla morte per salvare un’altra persona.

"Nicola Calipari era una brava persona." Non è un elogio, non è un epitaffio, non è una commemorazione. È una frase che potremmo sentire in bocca a un vicino di casa, a un collega, a un amico. Ed è per questo che chiude il monologo con una forza devastante. È la frase che taglia ogni retorica possibile e mette tutto su un piano personale, vicino, umano. È lì che il film — senza alzare il volume — ci mette di fronte a una perdita reale, non astratta.

Conclusione

Quello del direttore de Il Manifesto è uno sfogo, non una dichiarazione. È un momento di cinema in cui il dolore non è scritto, ma parlato, nel senso più istintivo del termine. È una scena che non vuole insegnare niente, ma vuole far sentire il peso dell’assurdità, del tempismo beffardo, della fragilità che rimane anche quando tutto sembra essersi risolto.

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