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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo di Apollo 13 è un momento in cui la sceneggiatura smette di raccontare la missione e inizia a raccontare l’uomo. Jim Lovell, con tono calmo, quasi rassegnato, condivide un’esperienza passata che è molto più di un semplice aneddoto da pilota di guerra. È una riflessione sul controllo, sulla perdita di riferimenti e sulla fiducia cieca nel fatto che, a volte, qualcosa — anche se inspiegabile — ti può riportare a casa. In questo monologo, Jim Lovell racconta un episodio apparentemente lontano dalla trama principale, ma che in realtà ne è la sintesi poetica. Siamo in un momento di stallo emotivo e narrativo. L’equipaggio di Apollo 13 è ancora in balia dell’incertezza, e l’unica cosa su cui possono contare è la propria capacità di non perdere la calma. Il racconto di Jim arriva in un momento di pausa, quasi di sospensione, come se fosse un respiro profondo prima del prossimo problema. Ma quel racconto ha un sottotesto fortissimo: non sempre avere il controllo è necessario per trovare la strada.
MINUTAGGIO:-
RUOLO: Jim
ATTORE: Tom Hanks
DOVE: Amazon Prime Video
ITALIANO
Ah, beh, sì. Mi ricordo di quella volta che ero sul mio aereo, un Banshee, in condizione di combattimento, quindi senza nessuna luce sulla portaerei. Era la Shangri-la, nel mare del Giappone, e il mio... il mio radar era in panne ed il mio radiofaro d'atterraggio era latitante, perché qualcuno in Giappone usava la stessa frequenza, e così mi stava portando lontano da dove si supponeva che andassi. E mi ritrovo a guardare in basso sull'enorme oceano scuro, così accendo la mia luce di carteggio, e a un tratto, zak, mi va tutto in cortocircuito nell'abitacolo. La strumentazione partita, le luci spente, non so più nemmeno a che quota mi trovo. Ah, sapevo già di essere a corto di carburante, così comincio a pensare di ammarare nell'oceano e... guardo giù, e nell'oscurità vedo una specie... una specie di fascia verdastra. È come una lunga guida verde stesa proprio sotto di me, ed erano le alghe, capisce? Quella roba fosforescente che viene frullata dalle eliche nella scia di una grande nave, e mi stava, appunto, riportando dritto a casa. Ecco, se le luci dell'abitacolo non fossero andate in corto, non avrei mai potuto essere in grado di vederla, quindi non... non si sa mai quali siano gli eventi che ti riporteranno a casa.
“Apollo 13”, diretto da Ron Howard nel 1995, è un film che racconta una delle missioni spaziali più delicate della storia della NASA. Ma attenzione: non è un film sullo spazio in senso astratto. È un film sull’imprevisto, sulla tensione, sul fallimento tecnico e sulla capacità umana di adattarsi, risolvere e sopravvivere. E lo fa senza bisogno di drammatizzare in modo artificiale: si affida ai fatti, e proprio per questo fa effetto. La missione Apollo 13 è la settima del programma Apollo e la terza che avrebbe dovuto portare degli astronauti sulla Luna. Ma a differenza delle precedenti, questa non arriverà mai sul suolo lunare. Il film racconta esattamente questo: una missione quasi compiuta, che diventa un’odissea di sopravvivenza nello spazio. Siamo nel 1970, in un’America che si è già un po’ abituata all’idea di andare sulla Luna. Non c’è più il clamore dell’Apollo 11. C’è una certa routine, quasi noia. Ed è proprio questa missione "di serie B", in partenza il giorno 11, con equipaggio secondario rispetto alle grandi star della NASA, che diventa leggenda.
Il film segue da vicino i tre astronauti della missione: Jim Lovell (Tom Hanks), Fred Haise (Bill Paxton) e Jack Swigert (Kevin Bacon). Dopo il declassamento del membro originale Ken Mattingly (Gary Sinise) a causa del rischio che potesse sviluppare il morbillo, Jack viene inserito come sostituto all’ultimo minuto. Questo cambio, apparentemente minore, viene trattato con un certo peso: è l’elemento che simboleggia come, nella missione, le cose non partano col piede giusto sin dall’inizio. Dopo il decollo, tutto sembra andare secondo i piani. Ma tre giorni dopo la partenza, arriva l’evento che dà forma a tutto il film: un’esplosione nel modulo di servizio, causata da un guasto a un serbatoio di ossigeno. È lì che viene pronunciata una delle frasi più iconiche del cinema moderno (che nella realtà fu leggermente diversa): "Houston, we have a problem." Da quel momento, la trama cambia completamente tono e ritmo. La missione non è più "andare sulla Luna", ma tornare vivi sulla Terra. Il modulo lunare, che doveva servire solo come alloggio temporaneo per scendere sul suolo lunare, diventa un’ancora di salvezza per l’intero equipaggio. Ma non è progettato per ospitare tre persone così a lungo. Si inizia una corsa contro il tempo fatta di calcoli manuali, razionamento dell’ossigeno, improvvisazioni tecniche. Il centro di controllo della NASA a Houston, guidato dal direttore di volo Gene Kranz (Ed Harris), diventa l’altro protagonista del film. Il modo in cui gli ingegneri riescono, con materiali limitati e in condizioni di pressione altissima, a trovare soluzioni per riportare gli astronauti a casa è uno dei punti più affascinanti del film. Il dialogo tra ingegno umano e tecnologia portata al limite è costante.
Jim non sta solo parlando con qualcun altro — in realtà, sembra quasi che stia parlando con sé stesso. Il tono è riflessivo, pacato, senza eroismi. Sembra voler ricordare a se stesso che c’è stato un momento in cui tutto sembrava perduto, eppure le cose si sono risolte. In questo senso, il monologo funziona come un parallelismo tematico tra il passato da pilota e il presente da astronauta. Il vero cuore del discorso, però, è nella perdita del controllo: la strumentazione è guasta, le luci sono spente, non sa dove si trova né quanto carburante gli resta. È l’archetipo della disconnessione, della solitudine totale. In quel momento, l’unica cosa che ha è la vista: uno sguardo su qualcosa che non doveva esserci, che non avrebbe potuto vedere se tutto fosse andato secondo i piani. Ed è proprio lì il punto. Il corto circuito, che rappresenta un guasto, diventa lo strumento che gli permette di tornare a casa.
Le alghe fosforescenti, nella loro semplicità naturale, diventano una traccia, una guida. Qualcosa che non può controllare, ma che può seguire. C’è una poetica dell’imprevisto, in questo racconto. E una riflessione implicita su come la logica, i calcoli, i piani — per quanto precisi — non bastino sempre. La frase chiave: “Non si sa mai quali siano gli eventi che ti riporteranno a casa.” È una riflessione che va oltre la situazione contingente. È una linea tematica che riguarda tutto il film: la missione fallisce, ma gli uomini tornano. E non perché hanno seguito un piano perfetto, ma perché hanno saputo adattarsi agli imprevisti. Quel “zak”, che introduce il corto circuito, è quasi una cesura narrativa: da lì in poi, la realtà cambia. Le alghe fosforescenti diventano simbolo di una guida invisibile, non calcolabile. E in un film dove tutto è basato su procedure, protocolli, strumenti, è interessante che la svolta narrativa passi attraverso qualcosa di organico, naturale, quasi magico. Ma attenzione: non è un discorso spirituale o mistico. È un modo per dire che la realtà, a volte, sorprende. E che le soluzioni possono arrivare anche quando tutto sembra guasto.
Questo monologo, nella sua semplicità narrativa, è uno dei momenti più carichi di significato di Apollo 13. È un passaggio in cui il film rallenta, si fa intimo, e ci permette di entrare nella mente di Jim Lovell. Non serve che lo dica esplicitamente, ma lo capiamo: sta cercando una guida nel buio, esattamente come allora. Sta sperando che, ancora una volta, qualcosa — magari non previsto, magari non spiegabile — lo riporti a casa. E in quel racconto, in quella memoria, trova forse la forza per continuare a credere che sia possibile.
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