Il monologo di Nada alla madre in La bambina che non sapeva cantare: analisi e significato

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Il monologo di Nada alla madre in “La bambina che non voleva cantare” arriva in un momento di svolta. Non è una scena costruita per "commuovere", ma per rompere. Per far crollare quella diga emotiva che la protagonista ha eretto per tutta la vita. Dopo anni passati ad adeguarsi, a comprimere sé stessa per non disturbare, Nada esplode. E lo fa con parole che non sono più filtrate dalla diplomazia dell’adolescente obbediente, ma dal dolore crudo di una figlia che ha dovuto imparare a crescere nel vuoto emotivo.

Non stai più male?

MINUTAGGIO: 1:12:02-1:12:50

RUOLO: Nada

ATTRICE: Tecla Insolia

DOVE: Rai Play



ITALIANO



Com’è che non hai più i nervi? Non hai… non hai il mal di testa, come mai non piangi più? Cos’è che ti ha fatto passar tutto mamma? Ho fatto quello che volevi. È tutta la vita che faccio quello che vuoi tu. Per non vederti star male, per non vederti piangere perché bisognava far silenzio perché la mamma è triste, perché la mamma è malata, ma adesso basta! E a me sai che ti dico? Che non me ne frega niente di te. Che alla fine era meglio se avevi una malattia vera. Che si vedeva, così almeno vivevamo meglio tutti quanti.

La bambina che non sapeva cantare

“La bambina che non sapeva cantare” è un film del 2021 diretto da Fausto Brizzi, liberamente ispirato all’omonimo monologo teatrale autobiografico di Veronica Pivetti, che nel film interpreta sé stessa in una versione romanzata della propria infanzia e adolescenza. È una storia che si muove tra commedia agrodolce e racconto formativo, con uno sguardo sempre intimo, diretto e privo di retorica. Siamo in Italia, negli anni ’70. La protagonista è una bambina di nome Nada, figlia di due genitori legati al mondo della cultura: la madre è un'insegnante rigida, il padre un intellettuale assente e distante.

Nada è sveglia, ironica, con uno sguardo curioso sul mondo, ma porta con sé una difficoltà che la condiziona profondamente: una voce “stonata”, fuori controllo, che la allontana dal canto, attività centrale nella scuola che frequenta e nella società di riferimento.

Il film segue la crescita di Nada dai suoi primi anni fino alla fine dell’adolescenza, osservando la costruzione della sua identità attraverso esperienze scolastiche, amicizie, rapporti familiari e – soprattutto – il rapporto con la propria voce. Quella voce che le viene continuamente rinfacciata come “sbagliata”, che la rende oggetto di derisione e la spinge a chiudersi, a costruirsi una corazza fatta di sarcasmo e osservazione acuta del mondo. La scuola rappresenta una micro-società in cui Vera si muove in bilico tra emarginazione e voglia di esprimersi. La figura della maestra, rigida e severa, incarna un modello educativo che non lascia spazio all’individualità. Nada impara a difendersi sviluppando una forma di intelligenza brillante, ma anche una certa malinconia sotterranea che accompagna tutto il racconto.

Il canto, in questa storia, è una metafora chiara: non è solo un’attività musicale, ma rappresenta la possibilità di “esprimersi con la propria voce”, di avere un posto nel mondo. Il fatto che Nada “non sappia cantare” viene letto da tutti come un limite, quando invece sarà proprio da quel limite – da quella voce fuori tono – che nascerà la sua forza creativa e la sua identità futura.

Analisi Monologo

Com’è che non hai più i nervi? Non hai… non hai il mal di testa, come mai non piangi più?” La prima domanda è carica di stupore e rancore. Vera nota un cambiamento nella madre: ora sembra “guarita”, più stabile. Ma questo miglioramento non viene accolto con sollievo, bensì con rabbia, perché arriva troppo tardi. Dove sei stata, mamma, quando avevo bisogno? Perché adesso funziona tutto e prima no “Cos’è che ti ha fatto passar tutto mamma?” Qui c’è un’accusa implicita. La domanda è una provocazione: perché ora stai meglio, cosa ti ha fatto passare “tutto”, se io sono cresciuta convivendo con quel “tutto”? Non è solo una questione di malessere psichico, è la gestione di quel malessere che ha lasciato cicatrici.

Ho fatto quello che volevi. È tutta la vita che faccio quello che vuoi tu.” Questa è la confessione centrale. Vera ammette — con rabbia ma anche con un sottofondo di stanchezza — che ha costruito tutta la sua esistenza nel tentativo di “non far star male” la madre. Un sacrificio silenzioso, costante, inespresso. Non per amore, ma per evitare la sofferenza, per mantenere una parvenza di stabilità in casa. “Per non vederti star male, per non vederti piangere…” Le ripetizioni non sono casuali. Sono il segno di un accumulo emotivo, di una memoria che ha preso nota di ogni lacrima e di ogni giorno in cui Nada ha dovuto farsi piccola, muta, accomodante. Questo passaggio è quasi un elenco di torti non riparati, di rinunce.

...perché bisognava far silenzio perché la mamma è triste, perché la mamma è malata…” Ecco il nodo centrale: l’invisibilità della malattia. La figura della madre è al tempo stesso ingombrante e assente. Una presenza che domina la casa, ma che si impone con la fragilità, non con l’autorità. Nada non ha avuto lo spazio per esistere come individuo, perché tutto ruotava attorno alla gestione del malessere materno. “Ma adesso basta! E a me sai che ti dico? Che non me ne frega niente di te.” Il punto di rottura. Questo “non me ne frega niente” è quasi uno sfogo disperato, non un reale disinteresse. È la voce di una figlia esausta, che non riesce più a tenere insieme il bisogno di amore e la rabbia per non averlo ricevuto.

Che alla fine era meglio se avevi una malattia vera. Che si vedeva, così almeno vivevamo meglio tutti quanti.” Questa è la frase più dura, ma anche la più rivelatrice. Nada inverte il tabù: non nega la sofferenza della madre, ma ne critica l’invisibilità. Se fosse stata una “malattia vera” – cioè riconoscibile, diagnosticabile, visibile agli altri – almeno avrebbe avuto un nome, una struttura, un modo per essere affrontata. Così com’è stata, invece, ha lasciato la famiglia in balia di un’instabilità continua, senza strumenti per difendersi o comprendere.

Conclusione

Questo monologo è la rottura di un patto silenzioso: quello che imponeva a Vera di tacere per non peggiorare le cose. Nel momento in cui pronuncia queste parole, Nada si libera. Ma non è una liberazione trionfale. È amara, lacerante, perché dietro ogni parola c’è il dolore di una bambina che avrebbe voluto solo una madre in grado di esserci davvero.

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