Unisciti alla nostra Community Famiglia! Compila il "FORM" in basso, inserendo il tuo nome e la tua mail, ed entra nell'universo di Recitazione Cinematografica. Ti aspettiamo!
Articolo a cura di...
~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo di Omar in “La vita da grandi” è una finestra spalancata sul suo mondo interiore. E come tutte le finestre ben aperte, lascia entrare aria, luce, ma anche qualche corrente emotiva che scompiglia. Non è semplicemente la presentazione per un contest: è una confessione pubblica, e allo stesso tempo privata. Un autoritratto fragile e diretto, che va oltre l’intento iniziale del video e si trasforma in una parabola intima sulla percezione di sé, sull'identità e sul desiderio di appartenenza.
MINUTAGGIO: 44:00-45:56
RUOLO: Omar Nanni
ATTORE: Yuri Tuci
DOVE: Netlfix
ITALIANO
Ho scoperto di essere affetto da autismo all’inizio del 2005, anche se mi è stato detto che ne soffro da sempre, ci sono nato, praticamente. E che non si può dire che ne soffro, né che ne sono affetto. Perché non è una malattia, ma una condizione diversa della propria mente. Allora io all’inizio pensavo che l’autismo mi fosse venuto da quando quei ragazzi mi picchiavano, ma in realtà ho scoperto che autistico si nasce, e non si diventa. Si dice anche che gli autistici vogliono stare per conto loro e che non provano amore o affetto nei confronti degli altri, ma in realtà non è così. Ci piace stare in compagnia, come gli altri. Anzi, più degli altri. Certo, a volte ci piace stare per conto nostro per fare ciò che ci piace, come rappare. Mi piace rappare, perché le parole sono più veloci dei pensieri. A volte gli autistici sono goffi. Io. Fanno fatica a guardare negli occhi. Io no. Possono mugugnare o muovere le mani o i piedi. Io quando sono agitato o emozionato. Insomma, gli autistici sono tutti diversi, quindi probabilmente alcuni di questi punti possono andare a quel paese. Ma quale Paese, dico io? Io preferirei Senigallia, piccolo comune in provincia di Ancona dove è nato fabrizio Tarducci, in arte Fabri Fibra. A volte vorrei vedere come sarei stato da non autistico, fare l’esperienza di una persona comune, dalla nascita fino alla morte. E vedere come mi sarei comportato e che cosa avei fatto. Ma questa è una cosa irrealizzabile. Allora mi sforzo a cercare la mia donna ideale, con la quale un giorno spero di poter avere dei figli. E se venissero autistici? Non che abbia qualcosa contro gli autistici, è che ho paura di non essere all’altezza. Chissà se a volte i non autistici si sentono così.
Il film "La vita da grandi" ruota attorno a un tema tanto semplice quanto difficile da afferrare: crescere davvero. E non parliamo di età anagrafica, stipendi, responsabilità, ma di quel passaggio interiore che porta a riconoscere i propri desideri, affrontare le proprie paure e, soprattutto, smettere di recitare un ruolo che non ci appartiene. La trama si sviluppa in modo delicato e progressivo, quasi come se lo spettatore seguisse un percorso terapeutico insieme ai due protagonisti: Irene e Omar.
Irene è una giovane donna che vive a Roma e lavora in una ditta di pannelli solari. Un contesto apparentemente “green”, legato al futuro e alla sostenibilità, ma che per lei è sinonimo di routine e insoddisfazione. È lì che inizia il paradosso: lavora per un’azienda che guarda avanti, ma lei è ferma. Non perché non abbia ambizioni, ma perché ha imparato a stare al suo posto, a reprimere l’iniziativa, la creatività, l’istinto. La chiamata della madre da Rimini è un momento di frattura narrativa. Non tanto per la situazione familiare in sé (la madre che si assenta, i genitori che invecchiano, la responsabilità che ricade sui figli), quanto per il modo in cui Irene si ritrova improvvisamente obbligata a confrontarsi con qualcosa che ha sempre evitato: il presente reale, fatto di persone concrete, di bisogni, e di un fratello che rappresenta tutto ciò da cui si è sempre tenuta a distanza.
Omar è autistico. È stato cresciuto in un ambiente protettivo, quasi chiuso, dove ogni gesto quotidiano viene mediato, assistito, limitato per “evitare complicazioni”. Il problema è che questo sistema protettivo, nel tempo, si è trasformato in una gabbia. E Omar, che ha una mente sensibile e piena di immaginazione, ci si dibatte dentro, cercando uno spiraglio.
Irene, mossa da un misto di paura (del futuro, del doverlo accudire per sempre) e senso pratico, decide di imporgli un “corso intensivo per diventare adulti”. Qui il film si gioca una carta intelligente: ci aspetteremmo che il corso serva a Omar. In realtà serve a lei. È Irene a dover imparare cosa vuol dire essere grandi.
Quello che inizia come un piano ben congegnato da Irene per “sistemare” la vita del fratello, si trasforma presto in un processo di trasformazione reciproca. Irene scopre che Omar ha un mondo interiore ricco, sogni precisi, una direzione. Mentre lei, che si credeva adulta e centrata, si accorge di non avere una vera meta, se non quella dettata da una società che misura la maturità in base a stipendi, bollette e prestiti.
Fin dall’attacco – “Ho scoperto di essere affetto da autismo all’inizio del 2005” – Omar imposta il tono del monologo in modo affascinante: razionale, ma profondamente personale. Il verbo “scoperto” ci dice che per lui l’autismo non è stato qualcosa di dato, quanto piuttosto qualcosa che ha dovuto comprendere nel tempo, distinguere dal trauma, separare dal dolore.
Interessante è anche il modo in cui subito dopo si corregge da solo, quasi anticipando lo sguardo degli altri: “non si può dire che ne soffro, né che ne sono affetto”. Qui si coglie la consapevolezza di Omar, ma anche la pressione sociale su come bisogna parlare di certe cose, come bisogna esserlo, autistici. È già, in partenza, un monologo che nasce dalla necessità di darsi forma in un mondo che tende a incasellare tutto.
“Si dice che gli autistici vogliono stare per conto loro… ma in realtà non è così. Ci piace stare in compagnia. Anzi, più degli altri.” È un passaggio chiave. Perché qui si rompe il confine tra il linguaggio della diagnosi e quello del sentimento. Omar non parla in difesa di qualcuno: parla da dentro. Non vuole spiegare l’autismo, vuole spiegare sé stesso, con onestà e anche ironia. La battuta su Senigallia e Fabri Fibra (“Ma quale Paese, dico io?”) non è lì solo per alleggerire: è un modo per spostare il discorso sul terreno che gli appartiene. Quello del rap, della passione, della velocità del pensiero. Il verso “le parole sono più veloci dei pensieri” è quasi poetico. Dice moltissimo del suo modo di processare il mondo: quando la realtà si fa troppo densa, il linguaggio diventa un’ancora. Rappare è uno strumento di orientamento emotivo. Le parole permettono a Omar di mettersi in pari con il mondo, o addirittura di superarlo per un attimo.
Quando dice “A volte vorrei vedere come sarei stato da non autistico”, non è espressione di rifiuto della propria condizione, ma una curiosità esistenziale. Come se volesse testare un’altra modalità di esistenza. Ma subito dopo ammette che è impossibile, e si riporta alla realtà attraverso un desiderio concreto: trovare una compagna, avere dei figli. E qui arriva uno dei momenti più vulnerabili e autentici: “E se venissero autistici? Non che abbia qualcosa contro gli autistici, è che ho paura di non essere all’altezza”. È questa la chiave di tutto il monologo. Omar non ha paura dell’autismo: ha paura dell’incapacità. Di fallire come padre, come compagno, come essere umano. Una paura che, senza autismo, conoscono in molti. Ed è proprio in questo momento che si realizza il ribaltamento più potente: Omar non è “diverso” nei sentimenti. È profondamente, sorprendentemente umano.
Questo monologo funziona perché non chiede compassione. È, in fondo, una dichiarazione di esistenza: "ci sono anch’io", dice Omar. Con le mie goffaggini, i miei pensieri veloci, la mia paura di non essere all’altezza, la mia voglia di amare. Di diventare padre. Di vivere. E nel farlo, costruisce un piccolo spazio che è solo suo, dove l’autismo non è una cornice stretta, ma una lente personale attraverso cui guardare il mondo. E se noi spettatori siamo disposti a guardare con lui, e non solo lui, scopriamo un personaggio che non cerca di essere eroico o “speciale”: cerca solo di essere vero.
Le Migliori Classifiche
di Recitazione Cinematografica
Entra nella nostra Community Famiglia!
Recitazione Cinematografica: Scrivi la Tua Storia, Vivi il Tuo Sogno
Scopri 'Recitazione Cinematografica', il tuo rifugio nel mondo del cinema. Una Community gratuita su WhatsApp di Attori e Maestranze del mondo cinematografico. Un blog di Recitazione Cinematografica, dove attori emergenti e affermati si incontrano, si ispirano e crescono insieme.
Monologhi Cinematografici, Dialoghi, Classifiche, Interviste ad Attori, Registi e Professionisti del mondo del Cinema. I Diari Emotivi degli Attori. I Vostri Self Tape.