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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo arriva in un momento in cui la storia di Pietro in “Smetto quando voglio” ha già subito una trasformazione profonda. Non è più il ricercatore sottomesso al sistema accademico che subisce. È diventato il capo di una vera e propria organizzazione criminale — per quanto costruita con criteri scientifici — e sta prendendo consapevolezza del percorso che ha intrapreso.
Ma quello che colpisce non è solo cosa dice, ma il modo in cui lo dice. Pietro parla con freddezza, con metodo. Il tono è tecnico, quasi da conferenza accademica. È come se volesse dimostrare razionalmente — a se stesso e agli altri — che tutto ciò che è successo ha una logica, un’origine legittima, quasi inevitabile.
MINUTAGGIO: 00:50-1:44
RUOLO: Pietro Zinni
ATTORE: Edoardo Leo
DOVE: Netflix
In italia una droga per essere definita tale deve essere censita nell’elenco delle molecole illegali del ministero della salute: cocaina, eroina, anfetamina, metadone, ecstasy e più o meno altre duecento molecole fanno parte di quell’elenco. Se una molecola non è in quella tabella, allora la vuoi produrre, la puoi assumere, ma soprattutto la puoi vendere. A 24 anni mi sono laureato in in Neurobiologia con il massimo dei voti. Ho un Master in neuroscienze computazionali, e uno in dinamica molecolare. Negli ultimi mesi ho messo su una banda che gestisce un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Sono accusato di produzione e spasso stupefacenti, rapina a mano armata, sequestro di persona e tentato omicidio. Mi chiamo Pietro Zinni e sono un ricercatore universitario.
“Smetto quando voglio” è una commedia criminale del 2014 diretta da Sydney Sibilia. È il primo film di una trilogia che ha segnato un momento interessante del cinema italiano contemporaneo, capace di mescolare riferimenti alla crisi economica, alla precarietà lavorativa e al mondo della droga con un tono leggero e ritmi da action comedy. La trama ruota attorno a Pietro Zinni, un ricercatore universitario trentenne, brillante, competente, che lavora nel dipartimento di neurobiologia. Ha tutte le carte in regola per avere una carriera accademica stabile, se non fosse che il sistema universitario italiano lo scarica in tronco a causa di tagli ai fondi e a un precariato che sta diventando la regola. In altre parole: viene licenziato. Pietro si ritrova improvvisamente fuori da un sistema che aveva sempre cercato di servire, e capisce che la sua intelligenza, da sola, non gli basta per sopravvivere. In una società dove chi ha una competenza specifica viene continuamente declassato o ignorato, decide di usare le sue conoscenze scientifiche per... produrre una smart drug, cioè una sostanza psicoattiva nuova, non ancora illegale secondo la legge italiana. L’idea è semplice: se nessuno ti paga per essere onesto e competente, tanto vale usare quelle stesse competenze per guadagnare in un altro modo.
Qui entra in scena l’elemento più interessante del film: Pietro mette insieme una squadra di ex ricercatori, tutti licenziati, sottopagati o relegati a lavori improbabili. Abbiamo un chimico che lavora in una stazione di servizio, un latinista che fa il benzinaio, due economisti diventati giocatori clandestini, un antropologo che fa il lavapiatti, un archeologo finito a fare lo sguattero. Tutti con dottorati, tutti espulsi dal mondo accademico. Il gruppo funziona come una parodia delle gang da film heist, tipo “Ocean’s Eleven”, ma la forza è che ognuno di questi personaggi è un genio fallito. E questa è forse la parte più amara e interessante del film: la commedia nasce proprio dallo scarto tra la preparazione elevatissima di questi individui e l’assurdità del mondo che li circonda, dove l’intelligenza non ha alcun valore economico.
All’inizio tutto sembra funzionare: la smart drug che producono va a ruba, la polizia non può arrestarli perché la sostanza non è formalmente illegale, e il gruppo comincia a guadagnare in modo esorbitante. Ma ovviamente il successo porta con sé complicazioni. La banda, che nasce da uno slancio quasi etico (sopravvivere in un sistema malato), finisce risucchiata dalla stessa logica di potere, denaro e violenza che all’inizio voleva evitare. Le cose si complicano quando entrano in gioco spacciatori professionisti, bande rivali e la criminalità organizzata. E anche la legge, a un certo punto, comincia a muoversi. Pietro e i suoi amici, che volevano solo una rivincita contro un mondo ingiusto, finiscono invischiati in un circolo vizioso dal quale è sempre più difficile uscire.
“In Italia una droga per essere definita tale deve essere censita nell’elenco delle molecole illegali del ministero della salute…” Si parte con un dato tecnico-legale, freddo, preciso. Pietro non parla da criminale, ma da scienziato. Questa frase è importante perché ribalta il punto di vista: non è lui ad aver infranto la legge. È la legge ad avere delle lacune. Pietro ha semplicemente usato il sapere scientifico per muoversi dentro i confini di un sistema legislativo in ritardo. È la prima stoccata: chi ha studiato riesce ad aggirare le regole meglio di chi non lo ha fatto. “A 24 anni mi sono laureato in Neurobiologia con il massimo dei voti…” Questa parte è una vera sfilza di titoli, buttata lì come un curriculum. Ma non c'è alcun orgoglio: c’è ironia, c’è rabbia trattenuta. Il tono, se lo immaginiamo recitato, è quasi quello di un verbale di polizia. Pietro non rivendica il proprio valore per essere reintegrato nella società, lo elenca come prova del fatto che il suo valore è stato ignorato.
E allora, paradossalmente, cosa resta da fare? Usarlo per delinquere. “Negli ultimi mesi ho messo su una banda che gestisce un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro…” Qui arriva la contrapposizione forte: da studioso a criminale d’impresa. E lo fa con la stessa lingua con cui aveva descritto le sue competenze. Nessuna variazione di tono, nessuna distinzione morale tra università e malavita. Questo è il cuore del discorso: non c'è più differenza tra sapere e reato, tra merito e colpa. Se la società non ti riconosce per ciò che sei, allora ti trasformi in ciò che funziona. E se funziona, è legittimo. “Mi chiamo Pietro Zinni e sono un ricercatore universitario.” È l’unica in cui torna un’affermazione identitaria netta. Ma è una chiusura beffarda, quasi tragica. Dopo aver elencato accuse gravissime (rapina a mano armata, sequestro, tentato omicidio), Pietro afferma con fermezza ciò che davvero sente di essere: un ricercatore.
In poche righe ci dice cosa succede quando una società scarta i suoi talenti, quando chi studia non trova uno spazio, quando il merito non ha una ricompensa. Ma non c'è vittimismo: c’è una lucidità chirurgica. Pietro non si giustifica, dimostra. Dimostra che non ha infranto un sistema: l’ha compreso meglio di chi lo governa. E alla fine, nel definirsi ancora un ricercatore, compie un gesto fortissimo. È come se dicesse: “Io sono questo, anche se tutto intorno a me ha cercato di trasformarmi in qualcos’altro.”
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