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~ LA REDAZIONE DI RC
In un medical drama come Pulse, i monologhi sono strumenti chirurgici: tagliano dentro, scavano nelle ferite che definiscono chi sono oggi. E quello di Xander è un esempio perfetto di questo meccanismo. Nel contesto narrativo, il monologo arriva in un momento in cui il personaggio sta cercando, più o meno consapevolmente, di farsi vedere per quello che è davvero, spogliandosi del ruolo di medico brillante, sicuro, rispettato. Per qualche minuto, smette di essere il "capo degli specializzandi sospeso per cattiva condotta" e diventa solo un figlio, un giovane uomo che ha fallito e non è mai riuscito a perdonarsi. Il racconto dell’episodio in Indonesia, del bambino ventilato a mano, è una confessione intima, che rompe la patina di controllo tipica di Xander. Ed è proprio per questo che colpisce tanto.
STAGIONE 1 EPISODIO 3
MINUTAGGIO: 39:25-40:19
RUOLO: Xander
ATTORE: Colin Woodell
DOVE: Netflix
Altro aneddoto sui miei genitori. Dopo aver finito medicina mio padre mi ha mandato in Indonesia. C’era una loro clinica lì, era piena di malati. C’era un bambino di quattro anni, non respirava ma il cuore batteva. L’ho ventilato a mano, volevo continuare finché il cuore avrebbe retto. Ma in tanti avevano bisogno di aiuto, e così ho dovuto lasciarlo andare. Sua madre ha lanciato un grido che non dimenticherò mai. Mio padre racconta a tutti che ho preso la malaria e sono tornato a casa. Si vergogna a dire che sono scappato.
La serie Pulse, creata da Zoe Robyn con Carlton Cuse (sì, proprio Lost e Bates Motel), parte dal presupposto classico del medical drama — un ospedale, un’urgenza, un team sotto pressione — ma lo contamina con qualcosa di profondamente intimo: il caos delle relazioni tossiche in ambienti lavorativi chiusi, intensi, totalizzanti. Il risultato è un racconto dove l’adrenalina dei casi clinici si intreccia in modo indissolubile con il peso dei rapporti personali, e ogni turno in corsia diventa anche uno scontro silenzioso tra desideri, segreti e rimorsi. Al centro di Pulse c’è Danny Simms, specializzanda al terzo anno in medicina d'urgenza. Una figura costruita sul contrasto: è empatica e brillante, ma anche impulsiva e poco incline a gestire la pressione emotiva. L’ospedale dove lavora — il Maguire Medical Center di Miami — è il teatro di una promozione inaspettata: Danny viene nominata capo degli specializzandi al posto di Xander Phillips, suo ex mentore e amante, sospeso per una denuncia di comportamento inappropriato. La denuncia arriva da Danny stessa.
Da qui parte una narrazione tutta giocata sul filo del rimosso, della tensione non detta, della lotta tra passato e presente. Danny e Xander devono lavorare insieme, chiusi in un ospedale in lockdown a causa dell’arrivo di un uragano, mentre i dettagli della loro storia — fatta di passione, manipolazione e potere — cominciano a trapelare. Il loro è un rapporto che si è nutrito delle gerarchie e degli squilibri, e che adesso si rifrange sulla dinamica di reparto. I colleghi sono costretti a prendere posizione, o a sopportare il peso delle tensioni che non li riguardano direttamente ma che li coinvolgono in pieno. In un ambiente dove ogni errore può costare una vita, le emozioni non gestite diventano mine vaganti.
Il vero motore della serie è la riflessione su come il potere — anche quello esercitato inconsapevolmente — può deformare le relazioni. Xander non è un villain tradizionale.
È carismatico, brillante, fragile. Ma è anche un uomo abituato a gestire, a dirigere, a essere ascoltato. Il suo rapporto con Danny si sviluppa in una zona opaca, in cui i sentimenti non cancellano le dinamiche di controllo.
La promozione di Danny, arrivata dopo la denuncia, è un'arma a doppio taglio: è un passo avanti nella carriera, certo, ma anche l'inizio di una spirale di solitudine e giudizio. Non tutti la vedono come una vittima, alcuni colleghi mettono in discussione la sua credibilità. E lei, pur determinata, appare spesso sopraffatta da un senso di colpa e rabbia che non riesce a razionalizzare.
"Altro aneddoto sui miei genitori." La battuta di apertura è quasi sarcastica, un po’ stanca. Xander introduce il racconto come se volesse alleggerirlo, ma è chiaro fin da subito che non si tratta di un semplice "aneddoto". È il ricordo che lo ha definito. Ed è significativo che lo ricolleghi ai suoi genitori, come se ogni fallimento, ogni decisione, esistesse sempre in rapporto al giudizio paterno.
"Dopo aver finito medicina mio padre mi ha mandato in Indonesia." Qui c'è un punto chiave: l’azione è di suo padre, non sua. L’esperienza che sta per raccontare non nasce da una scelta, ma da un’imposizione. Il potere paterno — e simbolicamente, il potere della figura istituzionale — domina da subito. Xander è uno strumento, un prolungamento del prestigio familiare. "C’era un bambino di quattro anni, non respirava ma il cuore batteva. L’ho ventilato a mano, volevo continuare finché il cuore avrebbe retto." Xander ci mostra un’immagine molto concreta, quasi clinica, ma dietro c’è una disperazione silenziosa. La scelta di ventilare a mano è importante: è un atto ostinato, umano, che richiede presenza continua. È il tentativo di tenere in vita qualcuno con il solo sforzo delle proprie mani. E non è un dettaglio casuale: è proprio quando si trova faccia a faccia con l’impossibilità di "fare tutto da solo" che Xander crolla.
"Ma in tanti avevano bisogno di aiuto, e così ho dovuto lasciarlo andare."
Questa frase è devastante nella sua semplicità. L’etica del medico è messa alla prova: salvare uno o cercare di aiutare molti? La decisione di lasciare andare non è un fallimento oggettivo, ma per Xander diventa il simbolo del suo crollo personale.
"Sua madre ha lanciato un grido che non dimenticherò mai." Questa immagine non è medica, è umana. Il grido della madre è la vera cicatrice emotiva. È l’elemento che toglie ogni paravento professionale. Xander non racconta un trauma medico, racconta una colpa che lo ha seguito fino in Florida. "Mio padre racconta a tutti che ho preso la malaria e sono tornato a casa. Si vergogna a dire che sono scappato." Ecco il colpo finale. Non è solo il senso di colpa, ma anche il giudizio, la riscrittura del proprio fallimento da parte di chi ha potere su di lui — il padre. Scappare è una parola che Xander sceglie con freddezza, senza cercare attenuanti. È un’ammissione che lo umanizza e, al tempo stesso, spiega molto della rabbia e della tensione che si porta dentro. Non è solo un ex capo sospeso: è un uomo intrappolato da una storia che non ha mai potuto raccontare con le sue parole.
Questo monologo è costruito come un vero e proprio disinnesco del personaggio di Xander. Fino a questo punto, lo abbiamo visto come un uomo carismatico, autoritario, ambiguo. Ma qui si spoglia della maschera: non è infallibile, non è freddo, non è immune al fallimento. È un uomo che ha dovuto "lasciare andare" un bambino e che ha imparato troppo presto che, nel mondo della medicina, ogni scelta è anche una perdita. E allora quel grido — il grido della madre — diventa quasi un’eco costante, che spiega anche le sue azioni più discutibili. Non le giustifica, ma le inquadra. E, nel farlo, ci costringe a guardarlo con occhi diversi. Non come “l’uomo che ha abusato del suo ruolo”, ma come qualcuno che da sempre ha dovuto convivere con un ruolo che non ha mai scelto davvero.
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