F1 Recensione – Brad Pitt torna in pista in un film ad alta velocità

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Analisi a cura di...

~ LUCA FERDINANDI

Sto andando al cinema per la prima volta dopo un po’ di tempo con quella sensazione lì. Quella che ti sale quando stai per vivere un’esperienza più che un film. Era successa con Top Gun: Maverick: quella roba mitologica che ti fa sudare le mani durante i decolli e venire voglia di arruolarti nell’aeronautica, anche se hai il fiatone salendo le scale. F1 viene presentato proprio così: il Top Gun “di terra”.

E se nel film con Tom Cruise avevamo l’immortale pilota americano con lo sguardo da ragazzino e la mandibola di titanio, qui ci ritroviamo Brad Pitt.

Sessant’anni portati come se il tempo, con lui, avesse firmato una tregua.

Pitt torna protagonista in solitaria dopo un bel po’. Non lo vedevamo guidare la scena da solo con questa intensità da Allied, forse, o da Fury. Eppure, a differenza di tanti attori belli, Pitt è un caratterista nascosto nel corpo di un sex symbol. Uno capace di passare da Mickey lo zingaro di Snatch a Billy Beane in Moneyball, da Cliff Booth (che gli è valso un Oscar) in C’era una volta a… Hollywood al malinconico astronauta di Ad Astra. Ogni personaggio ha un segno, un dettaglio, una voce. Non è solo “il bello”: è un attore con la A maiuscola, punto.

E qui, in F1, dà vita a Sonny Hayes, ex promessa della Formula 1 degli anni ’90 caduto nell’oblio dopo un incidente, e ora richiamato in pista per salvare una scuderia in rovina e, va detto, anche per fare da mentore a un giovincello col piede pesante e la testa più vuota di un casco rotto.

Appena partono i primi 10 minuti capisci che non stai vedendo, ma vivendo. La camera è dentro la monoposto, letteralmente. Dietro l’orecchio del pilota, sotto il cruscotto, sulla visiera. Ti ritrovi catapultato in una Formula 1 reale, sporca, con le vibrazioni che ti fanno tremare i denti anche se sei fermo sulla poltrona del multisala.

La mano di Joseph Kosinski (già dietro Top Gun: Maverick) si sente tutta: regia immersiva, fotografia sporca di asfalto e calore, e un sound design che non ti dà tregua. L’esperienza è da grande schermo, e solo da grande schermo.

Ecco, la trama. Qui viene la parte in cui si alza leggermente il piede dall’acceleratore.

Spoiler leggeri da qui in avanti

La storia è questa: Sonny Hayes, leggenda dimenticata, vive in un furgone e si barcamena tra gare secondarie. Ruben Cervantes (Javier Bardem in versione stallone impazzito), ex compagno di squadra e ora proprietario della scuderia APXGP, lo supplica di tornare per salvare la squadra. Lui prima dice no, poi dice sì. Entra in un team disastroso e diventa guida e punto di riferimento per Joshua Pearce, il rookie britannico arrogante e incontrollabile.

Il resto è un saliscendi di tensione, scontri, cadute, tradimenti, rotture e riscatti. Un po’ Rocky IV, un po’ Ford v Ferrari, un po’ Rush — ma senza mai riuscire a trovare quel colpo di scena davvero indimenticabile.

Ecco un punto dolente. Il personaggio di Kate McKenna, l’ingegnera del team (interpretata da Damson Idris), viene introdotto come una mente brillante, indipendente, capace di interfacciarsi alla pari con Sonny. Poi però... switcha.

Dopo una manciata di scene e due nottate in officina, eccola innamorata di “Braddone”, come se fossimo in una fanfiction scritta alle superiori. Un personaggio che aveva potenziale per essere la chiave tecnica e umana della storia, e invece viene relegato a spalla romantica con reazioni troppo semplici per un film che cerca (e spesso trova) profondità. 

Brad Pitt: credibile a 60 anni?

Sì, parliamone. Brad Pitt ha 60 anni. E no, non è credibile. Cioè: non sarebbe credibile, se fosse chiunque altro.

Ma è Brad Pitt. Ha una presenza scenica che buca qualsiasi obiezione razionale. Che sia al volante o in tuta ignifuga, lo guardi e pensi: “Sì, ok, lo può fare”. Il film si regge su questa sospensione dell’incredulità. Non è la storia a rendere plausibile Brad Pitt. È Brad Pitt che rende plausibile la storia. Anche quando, con un mezzo catorcio, batte i migliori piloti del mondo. Anche quando torna in pista dopo trent’anni e vola. Sì, è plot armor. Ma è plot armor ben messa, scritta attorno a una figura che riesce a farla funzionare. E se lo dice Lewis Hamilton che “solo chi ce l’ha dentro riesce a guidare così”, allora per una volta ci crediamo davvero.

La domanda finale è quella semplice:

“Luca, ma il film è consigliato o no?”



Sì. 


Andate. 

In sala. 

Con pop corn, alette di pollo e un’amica o un amico che sappia zittirsi quando comincia il rumore dei motori.

Perché alcune sequenze ti lasciano a bocca aperta. Perché l’effetto è quello di essere lì. Perché Brad Pitt è magnetico, anche quando fa cose che sulla carta non stanno in piedi. E perché c’è Bardem in versione El Toro, che con Pitt nella stessa inquadratura sembrano pronti a lanciare un’onda energetica di testosterone contro un asteroide diretto verso la Terra.



Troppo? No. 

F1 non è un capolavoro immortale, ma è cinema d’azione fatto bene, costruito con intelligenza e confezionato con passione. Ti fa vibrare la poltrona, ti dà una storia classica con il fascino delle seconde possibilità, e ti regala un protagonista che, nonostante l’età e i limiti della sceneggiatura, tiene insieme tutto il film con lo sguardo di chi non ha mai davvero lasciato la pista.

E due ore e mezzo su una pista di F1, quando ti ricapita?

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