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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo arriva in un momento decisivo del film "Romanzo Criminale" ed è pronunciato da Il Sorcio (interpretato da Elio Germano), un personaggio borderline, impulsivo, che vive tutto in modo viscerale. È un momento di rottura. Di sfogo, ma anche di rivelazione. In una sala interrogatori, davanti al commissario Scialoja, Sorcio abbandona il codice di silenzio che ha sempre protetto la banda e decide di parlare. E lo fa a modo suo: grezzo, diretto, caotico, ma lucidissimo. Il monologo è ambientato durante uno degli interrogatori chiave del film. Il Bufalo, ormai in carcere, sta vivendo un momento di rottura interiore. La morte del Libanese ha lasciato un vuoto di comando e l'ascesa del Dandi ha rimescolato le gerarchie della banda. In più, Bufalo ha capito di essere diventato sacrificabile.
MINUTAGGIO: 1:48:17-1:49:12
RUOLO: Bufalo
ATTORE: Elio Germano
DOVE: Netflix
ITALIANO
Io appartengo a un’organizzazione criminale. Va bene? E’ vero. Io da anni appartengo a questa organizzazione criminale. Molto forte, molto ramificata. Io mi sono sempre occupato della qualificazione degli stupefacenti. Io li conosco tutti. Hanno fatto bische, terreni, negozi, palazzi, c’hanno tutto. Pure una discoteca se sò comprate. E a parte voi, Commissà, nessuno je ha mai rotto le palle, perché dice che sono amici della mafia, dei terroristi, pure de certi poliziotti. So solo che er Freddo me vo morto, e chi comanda veramente oggi è er Dandi.
"Romanzo Criminale" (2005), diretto da Michele Placido e tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo, è un film che racconta l’ascesa, il dominio e il crollo di una banda criminale nella Roma degli anni Settanta e Ottanta. Non è un gangster movie “alla americana”. Qui non c’è solo la scalata al potere: c’è un’intera città – Roma – che cambia faccia mentre i protagonisti diventano leggenda.
La trama prende spunto dalla vera storia della Banda della Magliana, ma senza mai dichiararsi documentario. È un’opera che mischia cronaca, romanzo, politica e malavita, costruendo una narrazione che funziona come uno specchio sporco di quegli anni.
I protagonisti sono quattro ragazzi di borgata che decidono di prendersi Roma. Ognuno con un nome da soprannome:
Il Libanese (Pierfrancesco Favino): è il motore della banda. Ambizioso, violento, deciso. Vuole potere, e non si accontenta dei piccoli traffici.
Il Freddo (Kim Rossi Stuart): il più riflessivo del gruppo. Uno che uccide senza battere ciglio, ma porta il peso di quello che fa.
Il Dandi (Claudio Santamaria): ha il fiuto per il denaro. È quello che si avvicina di più alla Roma dei salotti, dei politici e della borghesia corrotta.
Il Bufalo (Riccardo Scamarcio): la mina vagante. Spietato e imprevedibile.
Il film comincia con un sequestro: quello del Barone Rosellini, un ricco uomo della Roma bene. È il colpo che permette al Libanese di mettere insieme i soldi per dare vita a un’organizzazione criminale. Il sogno è chiaro: monopolizzare il traffico di droga nella capitale.
E ci riescono. La banda cresce, ingloba altri gruppi, si allea con la camorra, con la mafia, entra nei giochi di potere, tocca ambienti dello Stato. Ma più salgono, più diventano vulnerabili.
L’equilibrio interno comincia a sgretolarsi: divergenze tra Libanese e Dandi, tensioni tra Freddo e il resto della banda, amori che distraggono, soldi che dividono. La morte del Libanese (un omicidio inaspettato) è la crepa che diventa voragine. Da lì in poi è una lenta e inevitabile discesa.
La banda si spacca, il commissario Scialoja stringe il cerchio, e i nemici – interni ed esterni – cominciano a colpire. Alla fine, la Roma criminale che avevano conquistato si ritorce contro di loro.
“Romanzo Criminale” racconta un’epopea tragica. La banda non è solo un’organizzazione criminale: è il simbolo di un’Italia che, negli anni Settanta e Ottanta, mescola terrorismo, servizi segreti deviati, politica e criminalità organizzata.
Il confine tra Stato e anti-Stato, tra legalità e crimine, si fa poroso. E dentro a questa zona grigia ci si muovono tutti: la banda, la polizia, i politici, la borghesia. Tutti sono compromessi. E nessuno, davvero, resta pulito.
“Io appartengo a un’organizzazione criminale. Va bene? È vero.” L’inizio è una dichiarazione secca. Senza fronzoli, senza tentativi di difesa. La frase ha il peso di una sentenza. Il Sorcio falo non cerca di salvarsi: vuole ferire. Il modo in cui dice “Va bene?” è provocatorio. È come se dicesse: “È questo che volevate? Ecco, prendetevelo.” “Io da anni appartengo a questa organizzazione criminale. Molto forte, molto ramificata.” Qui inizia a dare forma a qualcosa che fino a quel momento era rimasto nell’ombra. La banda viene descritta come un’organizzazione tentacolare, capace di infiltrarsi ovunque. Il tono è quasi da pentito, ma la struttura del discorso è quella di un accusatore.
“Io mi sono sempre occupato della qualificazione degli stupefacenti. Io li conosco tutti.” Questa è una delle frasi più particolari del monologo. Sorcio si accredita come “tecnico”, come uno che ha un ruolo specifico, una competenza. È un modo per legittimare la sua posizione nella banda, ma anche per sottolineare che lui ha visto tutto. Non è un pesce piccolo. “Hanno fatto bische, terreni, negozi, palazzi, c’hanno tutto. Pure una discoteca se sò comprate.” La lista di beni e attività serve a costruire l’immagine di una criminalità borghese, imprenditoriale. Questo non è più un gruppo di delinquenti da borgata: è un sistema. Il tono è accusatorio, ma anche pieno di disillusione. Il Sorcio guarda alla trasformazione della banda con disgusto. L'avidità ha preso il posto della fratellanza.
“E a parte voi, Commissà, nessuno je ha mai rotto le palle, perché dice che sono amici della mafia, dei terroristi, pure de certi poliziotti.” Qui entra in scena il vero cuore del monologo: la denuncia del sistema. Non è solo la banda a essere corrotta, è tutto l’ambiente in cui si muove. Soorcio svela il corto circuito tra criminalità, istituzioni, politica. Il commissario diventa, paradossalmente, il suo unico interlocutore "pulito" – o almeno l’unico che ci ha provato. “So solo che er Freddo me vo morto, e chi comanda veramente oggi è er Dandi.” Il finale è personale. Da una riflessione sul potere si passa al tradimento individuale. Bufalo capisce di essere diventato scomodo, inutile. Il Freddo lo vuole morto perché lo vede come un problema. E il Dandi – che rappresenta l’ascesa del potere più cinico, quello dei soldi e delle relazioni – è ormai il vero capo. Il monologo si chiude con un’amara presa di coscienza: la banda non esiste più. Esistono solo interessi.
Questo monologo segna la fine di un’epoca per il Sorcio. Non è un pentimento nel senso classico. È uno sfogo, un atto di guerra contro chi lo ha tradito. Il suo linguaggio è ruvido, ma il contenuto è lucidissimo. Sta raccontando il passaggio da una criminalità di borgata, fatta di codici e lealtà (per quanto distorte), a un’organizzazione invisibile, spietata, che usa le persone come pedine.
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