Too Much, il monologo di Jessica sul padre, un ricordo intimo

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Articolo a cura di...


~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Questo monologo arriva in un momento in cui Jessica è costretta a riflettere davvero su chi è. Non su chi vorrebbe essere, o su chi è stata con Zev o con Felix, ma su chi è diventata nel rapporto con l’unica figura maschile che, in qualche modo, ha amato senza condizioni: suo padre.

Hakim, ascoltami!

STAGIONE 1 EP 3

MINUTAGGIO: 23:00-25:01

RUOLO: Jessica

ATTRICE: Megan Stalter

DOVE: Netflix



ITALIANO



Beh, lui aveva… il morbo di Parkinson, in una… forma molto aggressiva, chiamata atrofia multisistemica. E’ come se il Parkinson e il morbo di Lou Gehrig dessero alla luce un figlio. Ahm… parlava a stento. E se ne stava seduto sulla poltrona tutto il giorno a guardare vecchi film western. Tipo Butch Cassidy, uno dopo l’altro. Già. Ma… quando ero più piccola, o mio Dio. Vorrei tanto poterlo rivedere. Quando andavo giocare a casa di qualcuno che odiavo lui veniva a prendermi, che sollievo. Aveva delle mani estremamente delicate. Era molto bravo a costruire le cose. Mi piaceva vederlo giocare con l’argilla. Oppure rollarsi una canna mentre guardava il tennis con gli amici. Diceva che tutti dovrebbero essere in grado di guidare un’auto, rollare una canna e fare un uovo sodo. Io non so fare nessuna delle tre cose, si vergognerebbe di me.

Too Much

Protagonista è Jessica (Megan Stalter), trentenne americana alla deriva, emotiva e lavorativa. È stata lasciata da Zev, fidanzato da tempo, che l’ha scaricata in mondovisione per mettersi con un’influencer (Emily Ratajkowski) e chiederle la mano in diretta su TikTok. Jessica non è solo ferita: è in piena caduta libera. Vive con un cane spelacchiato (Astrid), si trascina in un lavoro pubblicitario che odia, e ha un sogno mai realizzato: diventare regista. La svolta arriva quando un ex cognato-collega, James, le propone un trasferimento a Londra. Jessica accetta e inizia quello che dovrebbe essere un nuovo inizio, ma che in realtà si rivela un altro vortice di frustrazioni, scontri culturali e instabilità emotiva. Il suo nuovo appartamento londinese è un disastro, i vicini sono molesti, e l’unico conforto sembra arrivare da un incontro casuale: quello con Felix (Will Sharpe), musicista introverso e disilluso, conosciuto una sera in un pub.

Felix e Jessica iniziano una relazione fatta di gesti affettuosi ma anche di tanti silenzi e tensioni non risolte. Lui è sfuggente, lei è ossessiva. Le ferite del passato sono ancora fresche per entrambi. Felix si porta dietro un trauma infantile mai affrontato (è stato molestato da bambino), mentre Jessica non riesce a lasciarsi alle spalle la tossicità della relazione con Zev. Anzi, la nutre. Registra video di insulti, li archivia come un diario privato, e finisce per pubblicarli per sbaglio, scatenando un piccolo disastro mediatico.

Il lavoro in agenzia è finalmente stimolante, ma anche qui la pressione è altissima. Il suo capo (interpretato da Richard E. Grant) è esigente fino all’assurdo. E quando Felix si trasferisce da lei per motivi economici, la convivenza svela ancora più fragilità nel loro rapporto. Lui, spaventato, si rifugia da Polly, la sua ex (Adèle Exarchopoulos), generando nuove insicurezze in Jessica.

Too Much è, sulla carta, una serie che riprende il filone classico di Dunham: la donna disfunzionale, ironica, egocentrica, immersa nel caos emotivo della vita adulta. Ma mentre in Girls c’era un’intera generazione rappresentata, qui tutto sembra ruotare attorno alla solitudine di Jessica.

Sia Jessica che Felix sono personaggi spezzati. Lui da un’infanzia rubata, lei da una lunga storia d’amore che l’ha fatta sentire “sbagliata” in ogni modo possibile. L’aborto non voluto, le critiche costanti sul corpo, la voglia di essere amata a tutti i costi: Jessica è una donna che non sa separarsi dalle sue ferite, e anzi, le coccola. Tutta la serie ruota intorno a questo bisogno – insaziabile, irrazionale, disperato – di essere vista, riconosciuta, amata. Jessica cerca conforto nei social, nell’attenzione del pubblico, nelle interazioni con estranei. Ma ogni volta che prova a costruire qualcosa di reale, si autodistrugge.

Analisi Monologo

«Beh, lui aveva… il morbo di Parkinson, in una… forma molto aggressiva, chiamata atrofia multisistemica.»

L’apertura è clinica, quasi da cartella medica. Jessica cerca di essere oggettiva, razionale, come se stesse parlando di un caso che non la riguarda. Ma il balbettio, le pause, il bisogno di spiegare con una similitudine (Parkinson + Lou Gehrig = figlio malato) tradiscono un dolore ancora lì, in superficie. Non c’è distanza vera tra lei e quella diagnosi. «Parlava a stento. E se ne stava seduto sulla poltrona tutto il giorno a guardare vecchi film western." L’immagine del padre malato è quella di un uomo ridotto all’immobilità, alla ripetizione. Un corpo che lentamente si spegne davanti a film che raccontano un’epica maschile fatta di cavalli, sparatorie e amicizie virili. Butch Cassidy diventa un dettaglio importante: due uomini in fuga, come in una favola western che si ripete fino allo sfinimento. Forse è l’ultima forma di movimento che il padre si concede: quello dentro lo schermo.

«Ma… quando ero più piccola, o mio Dio. Vorrei tanto poterlo rivedere.»

Dalla malattia si passa al ricordo. E qui Jessica si scioglie: lo sguardo si fa affettuoso, infantile, pieno di nostalgia. Il sollievo di essere “salvata” da una situazione scomoda (andare a giocare a casa di qualcuno che odiava) è una delle frasi più emotivamente oneste della serie. Jessica, che solitamente vive nell’eccesso, qui desidera una cosa semplicissima: sentirsi al sicuro.

«Aveva delle mani estremamente delicate. Era molto bravo a costruire le cose.»

Questa è forse la frase più poetica del monologo. Non un “padre forte”, non un “eroe”: ma un uomo dalle mani delicate. Un costruttore. Un artigiano. Una figura dolce, concreta. Il contrasto con la Jessica adulta, che si sente incapace, scoordinata, goffa, è fortissimo.

«Mi piaceva vederlo giocare con l’argilla. Oppure rollarsi una canna mentre guardava il tennis con gli amici.» I ricordi si mischiano: momenti teneri e momenti assurdi, tutti narrati con lo stesso tono. Il padre è un uomo che sa usare le mani, che sa fare — anche cose poco ortodosse — con una calma e un’autorevolezza che Jessica ammira. E invidia. «Diceva che tutti dovrebbero essere in grado di guidare un’auto, rollare una canna e fare un uovo sodo. Io non so fare nessuna delle tre cose, si vergognerebbe di me.» Il monologo si chiude con un’autocritica ironica e tragica allo stesso tempo. È la classica battuta triste di Jessica: “dovrei saper fare queste tre cose minime — e invece no”. È la sensazione di essere fuori posto nella propria eredità. Di non aver raccolto nulla di quello che il padre le ha lasciato. Eppure, è evidente che lo ha assorbito profondamente: lo racconta, lo ricorda, ne custodisce le stranezze.

Conclusione

È un momento chiave perché dà profondità alla sua fragilità: non è solo una donna lasciata da un uomo, non è solo ossessionata da un’ex rivale, non è solo una millennial disadattata a Londra. È anche — e soprattutto — una figlia che si è sentita amata da un uomo che ora non c’è più. E che si sente lontana da lui proprio ora che avrebbe bisogno di essere salvata ancora una volta.

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