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~ LA REDAZIONE DI RC
Siamo davanti a uno dei monologhi più intelligenti e taglienti di Too Much. Questa volta a parlare è Zev, ex di Jessica, interpretato da Michael Zegen (già visto ne La fantastica signora Maisel), e lo fa durante una seduta di terapia. Ed è interessante che un personaggio secondario, spesso trattato come “quello che se n’è andato con l’influencer”, venga finalmente spogliato dell’etichetta narrativa e mostrato in tutta la sua ambivalenza emotiva. Zev entra in scena con una voce nuova, diversa dal cliché del fidanzato che molla la protagonista per una vita più “instagrammabile”. Qui, in una stanza neutra, sotto lo sguardo invisibile di una terapeuta, racconta sua madre. Ma non è un racconto lineare: è un flusso affettuoso, esasperato, lucido.
STAGIONE 1 EP 8
MINUTAGGIO: 00:20-1:50
RUOLO: Zev
ATTPRE: Michael Zegen
DOVE: Netlfix
ITALIANO
Ok, lo so che è solo la seconda seduta, ma diciamo pure che mi madre Sharon è un classico. Di certo avrà conosciuto anche lei una Sharon. Lei è la tipica madre ebrea che ti ama talmente tanto che a diciannove anni non sai neanche azionare la lavatrice. Il genere di madre che… ti sistema la maglietta, ti allaccia i pantaloni, ti pulisce il dito con la saliva sul dito. E… vede, se lei ti ama, e ti nutre e… ti rimbocca le coperte di cui non hai bisogno e non hai chiesto. Beh, a te… sembra quello, l’amore. Ma c’è un prezzo da pagare, perché per avere quell’amore io devo dire a Sharon, o meglio, tutti dobbiamo dire alle nostre Sharon che le amiamo più di tutti. Che nessuna è paragonabile. Che quando sarò sul letto di morte, e tutta la vita mi passerà davanti è lei che vedrò. Io vedrò solo Sharon. Per avere un hype man doveva fare la rapper, non la madre. Ma mi ha formato, Jane. MI ha formato bene.
Protagonista è Jessica (Megan Stalter), trentenne americana alla deriva, emotiva e lavorativa. È stata lasciata da Zev, fidanzato da tempo, che l’ha scaricata in mondovisione per mettersi con un’influencer (Emily Ratajkowski) e chiederle la mano in diretta su TikTok. Jessica non è solo ferita: è in piena caduta libera. Vive con un cane spelacchiato (Astrid), si trascina in un lavoro pubblicitario che odia, e ha un sogno mai realizzato: diventare regista. La svolta arriva quando un ex cognato-collega, James, le propone un trasferimento a Londra. Jessica accetta e inizia quello che dovrebbe essere un nuovo inizio, ma che in realtà si rivela un altro vortice di frustrazioni, scontri culturali e instabilità emotiva. Il suo nuovo appartamento londinese è un disastro, i vicini sono molesti, e l’unico conforto sembra arrivare da un incontro casuale: quello con Felix (Will Sharpe), musicista introverso e disilluso, conosciuto una sera in un pub.
Felix e Jessica iniziano una relazione fatta di gesti affettuosi ma anche di tanti silenzi e tensioni non risolte. Lui è sfuggente, lei è ossessiva. Le ferite del passato sono ancora fresche per entrambi. Felix si porta dietro un trauma infantile mai affrontato (è stato molestato da bambino), mentre Jessica non riesce a lasciarsi alle spalle la tossicità della relazione con Zev. Anzi, la nutre. Registra video di insulti, li archivia come un diario privato, e finisce per pubblicarli per sbaglio, scatenando un piccolo disastro mediatico.
Il lavoro in agenzia è finalmente stimolante, ma anche qui la pressione è altissima. Il suo capo (interpretato da Richard E. Grant) è esigente fino all’assurdo. E quando Felix si trasferisce da lei per motivi economici, la convivenza svela ancora più fragilità nel loro rapporto. Lui, spaventato, si rifugia da Polly, la sua ex (Adèle Exarchopoulos), generando nuove insicurezze in Jessica.
Too Much è, sulla carta, una serie che riprende il filone classico di Dunham: la donna disfunzionale, ironica, egocentrica, immersa nel caos emotivo della vita adulta. Ma mentre in Girls c’era un’intera generazione rappresentata, qui tutto sembra ruotare attorno alla solitudine di Jessica.
Sia Jessica che Felix sono personaggi spezzati. Lui da un’infanzia rubata, lei da una lunga storia d’amore che l’ha fatta sentire “sbagliata” in ogni modo possibile. L’aborto non voluto, le critiche costanti sul corpo, la voglia di essere amata a tutti i costi: Jessica è una donna che non sa separarsi dalle sue ferite, e anzi, le coccola. Tutta la serie ruota intorno a questo bisogno – insaziabile, irrazionale, disperato – di essere vista, riconosciuta, amata. Jessica cerca conforto nei social, nell’attenzione del pubblico, nelle interazioni con estranei. Ma ogni volta che prova a costruire qualcosa di reale, si autodistrugge.
«Lo so che è solo la seconda seduta, ma diciamo pure che mia madre Sharon è un classico.»
Zev comincia con tono da stand-up comedian, quasi a difendersi dal peso di quello che sta per dire. “Sharon è un classico” non è una battuta casuale: è il modo con cui riduce la figura della madre a uno stereotipo riconoscibile, condiviso. Come a dire: “non sono solo io ad avere una madre così, vero?”
«È la tipica madre ebrea che ti ama talmente tanto che a diciannove anni non sai neanche azionare la lavatrice.»
Questa è la chiave del monologo: l’amore che paralizza, che infantilizza. Zev racconta una madre che non ha mai permesso al figlio di crescere davvero, trasformando l’affetto in una forma di controllo dolce, ma totale. Non c’è malizia nel tono, ma è chiaro il senso di soffocamento che quell'amore ha generato. La lavatrice diventa un simbolo: una cosa semplice che dovrebbe essere normale, ma che diventa inaccessibile perché qualcuno ti ha sempre impedito di imparare.
«Ti sistema la maglietta, ti allaccia i pantaloni, ti pulisce il dito con la saliva…»
Tre immagini perfette per sintetizzare un rapporto disturbato dalla presenza materna pervasiva. La saliva sul dito è quella scena che tutti conoscono e che, messa qui, fa emergere un senso di disagio, anche fisico. Zev è stato trattato come un oggetto fragile, eternamente bambino, e l’ha interiorizzato come amore.
«E… vede, se lei ti ama… a te sembra quello, l’amore.»
Zev smette di essere ironico e dice chiaramente quello che pensa: non ho mai imparato a distinguere l’amore dalla dipendenza. Quello che per altri è normalità — relazioni sane, autonomia, distanza — per lui è ignoto, o peggio, minaccioso. L’amore di Sharon è diventato lo standard tossico con cui valuta tutte le relazioni successive.
«Per avere quell’amore io devo dire a Sharon… che la amo più di tutti. Che nessuna è paragonabile. Che sul letto di morte… vedrò lei.» Ecco il prezzo. Il figlio che, per non perdere l’amore della madre, deve metterla al centro del proprio universo emotivo, anche a costo di falsificare i suoi veri sentimenti. Questa è una dinamica da culto affettivo: lei è la divinità, lui il devoto. L’amore materno diventa un debito eterno da ripagare con la totale sottomissione emotiva. «Per avere un hype man doveva fare la rapper, non la madre.» Zev chiude con una battuta brillante, eppure amarissima. L’immagine della madre come hype man — la figura sul palco che esalta il rapper — rovescia il senso del ruolo genitoriale. Sharon non è lì per sostenere lui, ma per ricevere da lui conferme continue. È lei che ha bisogno del figlio per sentirsi valida.
«Ma mi ha formato, Jane. MI ha formato bene.»
La frase finale è ambigua. Zev lo dice con un tono che può essere sia grato che sarcastico. Sottintende: “mi ha fatto diventare l’uomo che sono”, e insieme: “è per colpa sua che sono così confuso sull’amore”. È un riconoscimento e una condanna allo stesso tempo.
In questo monologo Zev viene finalmente umanizzato. Non è più il “bastardo che ha lasciato Jessica per una influencer”, ma un uomo che fatica a costruire legami sani perché è cresciuto all’interno di un modello d’amore asfissiante e totalizzante. La cosa più interessante è che Zev non si giustifica. Non cerca scuse. Dice le cose come stanno, con un tono che oscilla tra confessione e comicità. E in questo, si avvicina paradossalmente a Jessica: entrambi sono personaggi che usano le parole per esorcizzare il vuoto affettivo che si portano dentro.
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