“Siamo in guerra”: analisi del discorso in 8 Rue de l’humanité

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

La dichiarazione Siamo in guerra, reiterata tre volte, apre il film “8 rue de l'humanité" con un tono solenne, enfatico, quasi militaresco. È la voce del potere che cerca di dare ordine al caos. Un'espressione che nasce con l’intento di mobilitare, unire, fare appello alla responsabilità collettiva. Ma proprio per la sua forma — e per il contesto in cui viene pronunciata — questa frase solleva subito delle domande.

Che tipo di guerra è quella contro un virus? Chi è il nemico, davvero? E chi decide le regole di ingaggio?

Il film utilizza questa dichiarazione per inquadrare la narrazione: il condominio dell’8 Rue de l’humanité non è solo un luogo, ma un piccolo fronte domestico. Una sorta di microcosmo sociale in cui gli effetti del “linguaggio di guerra” vengono assorbiti, fraintesi, o messi in discussione.

Guerra

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ITALIANO

SIamo tutti in guerra. Una guerra sanitaria, certo. Non c’è nessun esercito armato o nazione da combattere. Ma il nemico è tra noi: invisibile, sfuggente, minaccioso. Il che richiede la mobilitazione generale. Siamo in guerra. Esorto tutte le forze politiche economiche sociali associative, tutti i concittadini a fare mostra di quella unità nazionale che ha permesso alla Francia di voltare ogni pagina buia del suo passato. Siamo in guerra.   

8 rue de l'humanitè

“8 Rue de l’humanité” è un film del 2021 scritto, diretto e interpretato da Dany Boon. Siamo nel pieno del primo lockdown del 2020 e il film decide di chiudere in un microcosmo tutto quello che è successo fuori, nel mondo reale. Un condominio parigino, con i suoi sette appartamenti abitati da personaggi molto diversi tra loro, diventa lo spazio chiuso in cui si muove tutta la narrazione. Il film si apre con l'annuncio del lockdown. La Francia si ferma e, con lei, gli abitanti dell’8 di Rue de l’humanité. Alcuni decidono di scappare in campagna o chiudersi in casa, altri rimangono per necessità o per scelta. Chi resta, però, non è mai veramente “fermo”. C’è chi è costretto a reinventarsi, chi è costretto a guardarsi in faccia per la prima volta senza le maschere della routine quotidiana.

I protagonisti sono diversi, ma tutti rappresentano frammenti della società che abbiamo vissuto (o osservato) in quel periodo:

Martin (Dany Boon) è un ipocondriaco di livello professionale, praticamente in lotta quotidiana con la paura del virus. Vive con la compagna, una cantante famosa (interpretata da Laurence Arné), che cerca invece di tenere in vita la sua carriera a distanza, facendo concerti su Zoom e sopportando la paranoia crescente di Martin.
Claire è una ristoratrice che vede la sua attività affondare sotto i colpi della crisi. Ma invece di arrendersi, apre una mensa per i senzatetto, in una trasformazione personale che il film racconta con leggerezza.
Il vicino allenatore di calcio e la sua famiglia si trovano a vivere tutti insieme in pochi metri quadri, con i problemi di coppia e genitorialità che diventano impossibili da ignorare.
Un ricercatore (personaggio quasi grottesco) lavora disperatamente per trovare un vaccino, ma si muove tra le paranoie dei complotti, le teorie pseudoscientifiche e il disprezzo dei colleghi.

Analisi Monologo

L’espressione "Siamo in guerra" viene usata come formula incantatoria. La ripetizione ossessiva ("Siamo in guerra" compare tre volte nel testo) ha un chiaro effetto retorico: creare urgenza, allineamento, disciplina. Ma la guerra evocata qui non ha soldati, né nemici visibili, e soprattutto non ha un fronte chiaro. È una guerra "contro un nemico invisibile", che può essere ovunque. Questa scelta linguistica, se da una parte serve a rafforzare la coesione sociale, dall’altra genera ansia e ambiguità. Il virus si confonde con il vicino di casa, con il passante, con l’altro. Il pericolo non è esterno: è tra noi.

In un contesto del genere, il linguaggio militare può diventare un’arma a doppio taglio: spinge all’unità, sì, ma può anche fomentare sospetto, paranoia e chiusura. Nel discorso, il virus viene descritto come “invisibile, sfuggente, minaccioso”. Questo lo avvicina a un nemico mitologico, più che scientifico. È un passaggio fondamentale: si sposta la narrazione della pandemia da un piano sanitario a uno esistenziale, quasi epico.

Ma questo slittamento è rischioso: costruisce una narrazione polarizzante, dove non c'è spazio per il dubbio, la complessità, l'ambiguità. In una guerra, o sei con noi, o sei contro di noi. Il film ci mostra esattamente le conseguenze di questo approccio: i personaggi si dividono, si giudicano, si isolano. Tutti si sentono sotto assedio, anche se chiusi in casa.

“Esorto tutte le forze politiche, economiche, sociali, associative…”: l’appello è alla coesione. Ma è un’appartenenza idealizzata, più evocata che reale. Il film si diverte (e ci provoca) mostrandoci proprio il contrario: le differenze tra ricchi e poveri, proprietari e affittuari, chi può permettersi di scappare e chi è costretto a restare.

Il messaggio istituzionale vuole creare una narrazione collettiva, ma la realtà che ci viene mostrata è profondamente individualista, piena di micro-interessi, egoismi e disconnessioni.

Conclusione

Il monologo istituzionale che apre 8 Rue de l’humanité funziona da prologo e da cornice ideologica. È una dichiarazione che pretende chiarezza, ma genera confusione. Che invoca unità, ma mette in luce le fratture. E proprio per questo, il film la usa come punto di partenza per decostruirla dall’interno.

Tutto ciò che vedremo dopo — le nevrosi dei personaggi, i loro tentativi di controllo, le reazioni assurde o sincere — sono risposte a quel primo messaggio. Un messaggio che, con tutta la sua solennità, mostra una verità importante: il linguaggio della guerra, se applicato a una crisi sanitaria, trasforma il cittadino in soldato, e la casa in trincea. Ma in quella trincea, come ci mostra il film, non siamo tutti uguali.

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