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~ LA REDAZIONE DI RC
“Kraven – Il cacciatore” è un film che ha generato parecchia curiosità già in fase di produzione, per via di quel mix di ambizioni dark, visione autoriale e inserimento nel contesto – sempre un po' disordinato – del Sony's Spider-Man Universe (SSU). Una pellicola che cerca di trasformare uno dei villain storici dell’Uomo Ragno in un anti-eroe tragico, con toni cupi e un approccio che, almeno nelle intenzioni, cerca di discostarsi dai blockbuster supereroistici più convenzionali.
Alla base c’è la trasformazione di Sergei Kravinoff in Kraven: non un semplice villain, ma un uomo spezzato, plasmato da traumi familiari e da una visione quasi spirituale del concetto di “caccia”. Il film si apre con un elemento fortemente simbolico: la caccia al leone, che diventa fin da subito una metafora del potere, del dominio e della perdita dell’innocenza. Quando Sergei salva il fratellastro Dmitri e viene ferito mortalmente, l’intervento mistico di Calypso introduce l’elemento sovrannaturale, con il siero che lo salva, alterando però la sua natura.
Quello che segue è un viaggio di vendetta e riscatto, ma anche un lento scivolamento in un’identità predatoria. Sergei diventa Kraven, e si allontana dalla civiltà, da Londra alla Russia passando per monasteri abbandonati in Turchia, come in un action-thriller che mescola archetipo e folklore. La figura del padre Nikolai (interpretato da un Russell Crowe freddo e manipolatore) è centrale: non solo come villain, ma come figura archetipica del potere che distrugge. È lui il “vero” cacciatore. E in fondo, la tragedia sta proprio lì: Kraven cerca per tutto il film di non diventare suo padre, ma finisce per indossarne letteralmente i panni – il gilet fatto con la pelle del leone è un simbolo piuttosto esplicito.
A complicare tutto ci pensa Dmitri, destinato nei fumetti a diventare il Camaleonte, e che qui assume un ruolo chiave nello smascherare le illusioni morali di Kraven. Il conflitto tra i due fratelli non è solo personale: è una riflessione su cosa significa giustizia in un mondo costruito sulla violenza, e se davvero esiste una redenzione possibile.
Nikolai Kravinoff: Russell Crowe
Kraven: Aaron Taylor-Johnson
Nikolai Kravinoff: Sergej, come hai fatto a trovarmi?
Kraven: Sono un cacciatore. E' quello che facciamo. Tu hai inviato il video, e hai inviato a Rhino chi ero.
Nikolai Kravinoff: Pensavi davvero che tuo padre non riconosceva azioni di suo figlio? Un assassino che utilizza tutti i metodi degli animali della giungla? Tu tra tutti dovresti riconoscere e apprezzare la bellezza della trappola che ho teso.
Kraven: Rhino ti stava dando la faccia. Tu non eri abbastanza forte da affrontarlo da solo, mhm?
Nikolai Kravinoff: Esatto. Ma mio figlio, il mio vero figlio, Kraven, nessuno è più forte. E sapevo che non lo avresti cercato per me. Quindi ho mandato lui da te.
Kraven: Bella trappola. Insomma, Dmitrij ha rischiato la vita, ma è il prezzo degli affari, giusto?
Nikolai Kravinoff: No no no no, perché sapevo che non avresti lasciato che facessero male al nostro prezioso Dmitrij.
Kraven: Mhm.
Nikolai Kravinoff: Il nostro impero è al sicuro.
Kraven: E adesso? Papà, vuoi che dimentichiamo il passato, immaginiamo un futuro insieme?
Nikolai Kravinoff: Come una famiglia.
I due finora si sono passati una bottiglia di un alcolico. Ora Kraven si alza, si avvicina a suo padre, e si avvia.
Nikolai Kravinoff: Sergej. Dove vai?
Kraven: Potevo darti la caccia. Anni fa. Ma non è successo. Nonostante ciò che avevi fatto, tutto il dolore che avevi seminato, eri mio padre.
Nikolai Kravinoff: E lo sono ancora. Siediti.
Kraven: "Non temere la morte" Non è quello che mi hai insegnato?
Kraven se ne va.Nikolai Kravinoff sente un suono, sta arrivando un orso. Kraven in mano ha i proiettili del fucile di suo padre, che non fa in tempo a ricaricare e viene ucciso dall'orso.
Questa scena arriva dopo un crescendo di violenza e disillusione, ma il tono è misurato, quasi intimo. Due uomini si siedono a bere — come se fossero ancora padre e figlio — ma ogni battuta nasconde una lama affilata. È il momento in cui Kraven potrebbe finalmente uccidere suo padre. Ma non lo fa. Fa di più: lo disarma moralmente e simbolicamente. Toglie il potere, prima ancora della vita.
Siamo di fronte a una "non-esecuzione", che vale più di mille vendette.
Nikolai: “Sergej, come hai fatto a trovarmi?”
Kraven: “Sono un cacciatore. È quello che facciamo.”
Kraven apre la scena rivendicando la propria identità, quella che il padre gli ha imposto fin dall’infanzia: il cacciatore. Ma c'è sarcasmo nella sua risposta. Non è più un’affermazione fiera, è una condanna che accetta con distacco. Come dire: "Mi hai addestrato così, e ora ti trovo. Ma non per salvarti."
Nikolai: “Pensavi davvero che tuo padre non riconosceva azioni di suo figlio?”
Qui inizia la recita manipolativa di Nikolai. Parla con tono di superiorità, come se stesse ancora dando una lezione. Definisce Sergei un assassino, ma lo fa con ammirazione distorta, come se fosse fiero della bestia che ha creato. È un uomo che si vede non come carnefice, ma come stratega. Non si assume colpe: rivendica tutto come parte di una grande “caccia”.
Kraven: “Rhino ti stava dando la faccia. Tu non eri abbastanza forte da affrontarlo da solo, mhm?”
Qui Sergei lo smaschera. Non solo lo accusa di codardia, ma lo colpisce nella sua idea più intima di potere: la forza fisica. È il colpo basso perfetto. In un mondo dove solo il più forte sopravvive, dire a Nikolai che non è stato in grado di affrontare Rhino da solo è peggio di uno sputo in faccia.
Nikolai: “Ma mio figlio... il mio vero figlio... Kraven...”
Questo è un momento crudele. Nikolai strumentalizza l’identità di Sergei: lo chiama "vero figlio" solo nel momento in cui serve ai suoi fini. Kraven, da essere umano, non gli interessava. Ma come figura mitologica, come "arma", sì. È il classico narcisismo del padre-padrone: se il figlio eccelle, è merito suo; se fallisce, non è più figlio suo.
Kraven: “Dmitrij ha rischiato la vita... ma è il prezzo degli affari, giusto?”
Kraven qui mostra una consapevolezza matura: ha capito il cinismo del padre, ma lo nomina con freddezza, non con rabbia. È come se stesse giudicando Nikolai senza urlare. Sta iniziando a “staccarsi”.
Nikolai: “Sapevo che non avresti lasciato che facessero male al nostro prezioso Dmitrij.”
È forse l’unico momento in cui Nikolai accenna a un'emozione. Ma anche qui, è calcolo. Non dice “tu volevi bene a tuo fratello”, dice "sapevo che avresti agito così". Sempre un piano, sempre un controllo. È un uomo che non ha mai amato, ha solo previsto.
Kraven: “Papà, vuoi che dimentichiamo il passato? Immaginiamo un futuro insieme?”
Questo è sarcasmo puro. Kraven prende le parole che Nikolai vorrebbe sentirsi dire, e gliele restituisce come una trappola verbale. È un confronto che usa il linguaggio del padre contro di lui, svuotandolo.
Kraven: “Potevo darti la caccia. Anni fa. Ma non è successo.”
Qui si arriva al cuore della scena: il rifiuto dell’assassinio. Kraven confessa che, pur avendone avuto la possibilità, non ha mai cercato vendetta violenta, perché era ancora legato a un’idea di padre. Ma ora non più. L’ultima frase — "Non temere la morte", non è quello che mi hai insegnato? — è una sentenza definitiva. Non è una minaccia. È un addio.
L’orso che arriva. Le munizioni mancanti. La morte non come esecuzione, ma come conseguenza.
Kraven non lo uccide con le mani, lo uccide non uccidendolo, lasciando che venga divorato da ciò che rappresenta il caos, la natura che non si controlla. È un rovesciamento totale della logica del film: il cacciatore finisce preda, perché ha cresciuto un figlio che ha imparato a non diventare lui.
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