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~ LA REDAZIONE DI RC
Nel quinto episodio di Untamed, Jay e Kyle si ritrovano in una delle rare scene in cui il tempo sembra fermarsi. Nessuna urgenza, nessun pericolo immediato. Solo un racconto pronunciato in equilibrio tra mito e quotidianità, tra spiritualità e memoria personale.
Jay è un uomo legato al territorio in un modo che Kyle fatica a comprendere. Questo monologo non serve a spiegare, ma a far percepire. L’appartenenza che Jay descrive non è solo culturale: è esistenziale. È il senso di essere parte di qualcosa che è molto più grande di te, ma che allo stesso tempo ti contiene.
STAGIONE 1 EP 5
MINUTAGGIO: 28:28-30:00
RUOLO: Jay
ATTORE: Raoul Max Trujillo
DOVE: Netflix
O-let’-te. L’uomo coyote. Creò i Miwok in questa valle, quattromila anni fa. Ci donò El-o’-win, per il seguito. Quattromila anni di spiriti del mio popolo presenti in ogni cosa, qui. Nella terra, nell’acqua, nel vento. Io li sento, se cammino tra gli alberi. Li sento intorno a me, quando il mondo tace. E quando arriverà il mio momento, io morirò qui. Ma se scegliessi di morire altrove, avrei lo stesso i miei antenati insieme a me. Perché gli spiriti di questa valle risiedono in ciascuno di noi. Così come li troviamo nella terra, nell’acqua… Nei venti. O così ricordo dai fumetti del Cavaliere solitario che leggevo da ragazzino.
La trama di Untamed, la miniserie thriller di Netflix in sei episodi, è un viaggio tra le ombre del passato e i silenzi assordanti della natura selvaggia. Ma è anche un’indagine stratificata che, come il parco in cui si svolge, nasconde più di quanto mostra. Lo Yosemite non è semplicemente lo scenario: è un terreno vivo, pieno di tracce, minacce e fantasmi. Proprio come la coscienza del protagonista. Kyle Turner (Eric Bana) è un ranger dell’Investigative Services Branch del National Park Service, assegnato allo Yosemite dopo anni lontano da tutto. Un uomo segnato dalla tragedia: ha perso suo figlio Caleb anni prima, e da allora convive con un senso di colpa talmente ingombrante da diventare quasi un personaggio a parte.
Turner non cerca solo un colpevole: cerca una via d’uscita da se stesso.
Tutto inizia quando il corpo senza vita di una giovane donna – soprannominata Jane Doe – viene trovato appeso a una corda da scalata. All’inizio sembra un incidente, poi si scopre che è stata uccisa: ha un proiettile nella gamba. L’indagine si apre e si complica subito: niente è come sembra, e a ogni pista seguita corrisponde una nuova crepa nel fragile equilibrio del parco. La ragazza si chiama in realtà Lucy, ed è la figlia illegittima di Paul Souter (Sam Neill), il capo della polizia del parco. Lucy voleva confrontarsi con l’uomo che l’aveva abbandonata, ma l’incontro si trasforma in uno scontro tragico: Souter, sopraffatto dalla paura e dal senso di vergogna, la minaccia con un’arma, e lei si butta giù da una scogliera per non dargli la possibilità di ucciderla. Quando la verità viene a galla, Souter si toglie la vita.
Parallelamente, Turner scopre che Shane Maguire, il guardiacaccia recluso nei boschi, è coinvolto in un traffico illegale: ha coperto l’esistenza di un laboratorio di produzione di droga nascosto in una miniera abbandonata. Il tutto camuffato da attività legate alla fauna. Quando Kyle lo affronta, Maguire lo ferisce gravemente, ma viene ucciso da Naya Vasquez (Lily Santiago), la giovane ranger che aveva deciso di seguirlo di nascosto. Questa parte della trama – il laboratorio nascosto – è quasi un sottotesto simbolico: qualcosa di tossico cresce in segreto nel cuore del parco, proprio come il dolore mai elaborato dei personaggi.
Caleb, il figlio di Turner, è morto da anni. Non è mai realmente presente nella storia: è una proiezione, una voce nella mente di un uomo che non riesce a lasciarlo andare. Caleb è stato ucciso da un predatore sessuale di nome Sean Sanderson, a sua volta ucciso da Maguire per ordine implicito di Jill Bodwin (Rosemarie DeWitt), l’ex moglie di Kyle. Lei, accecata dal dolore e dalla sete di giustizia, aveva messo in moto una spirale di vendetta che ora sta venendo a galla pezzo dopo pezzo. La scoperta arriva attraverso delle fototrappole piazzate nel parco: immagini che mostrano l’omicidio di Sanderson, incastrando definitivamente Maguire.
L’ultimo episodio chiude molti fili. Turner, sopravvissuto alla caccia nei boschi, ha ormai fatto i conti con il proprio passato. Ha scoperto la verità su Lucy, su Souter, su Jill, su Maguire e, soprattutto, su se stesso. Il suo rapporto con Caleb – costruito nella mente ma vivido quanto basta – si spezza nell’ultima scena.
Kyle lascia il parco. Raccoglie le sue cose e se ne va. Non ci viene detto dove, ma il messaggio è chiaro: il ciclo è finito. Untamed non è una storia di redenzione convenzionale. Turner non viene “salvato”. Ma ha finalmente fatto silenzio dentro di sé. E ora, può camminare.
"O-let’-te. L’uomo coyote. Creò i Miwok in questa valle, quattromila anni fa." Il monologo si apre come un racconto orale, radicato nella tradizione. Jay non dice “secondo la leggenda”, non cerca di legittimare il racconto con un preambolo razionale. Parla come se fosse un fatto. L’uomo coyote è il creatore, e il mito è reale nel momento in cui viene pronunciato. "Ci donò El-o’-win, per il seguito." El-o’-win, “per il seguito”: è il dono che rende possibile la continuità. Non solo della vita, ma della presenza. Jay non parla di sopravvivenza biologica, ma di spiriti che restano, che si intrecciano con ogni elemento del paesaggio. "Nella terra, nell’acqua, nel vento."
Questa triade ricorre spesso nella cultura dei nativi americani e qui diventa quasi una preghiera. Jay dice di “sentire” gli spiriti se cammina tra gli alberi, quando il mondo tace. È in questi momenti che la memoria si attiva, che il passato si fa presenza, che le radici diventano carne e voce. "Quando arriverà il mio momento, io morirò qui. Ma se scegliessi di morire altrove…" Questo è il passaggio chiave: Jay accetta la morte, ma non la teme. Perché sa che non sarà mai davvero solo. Ovunque vada, porta con sé gli spiriti. Perché – ed è questo il nucleo del discorso – l’appartenenza spirituale non è geografica: è interna. "Così come li troviamo nella terra, nell’acqua… nei venti."
Jay sta spiegando un modo di vivere, di camminare nel mondo. Uno in cui ogni elemento naturale è carico di significato, di storia, di spiriti. "O così ricordo dai fumetti del Cavaliere solitario che leggevo da ragazzino." Jay rompe l’intensità spirituale con un tocco autoironico. Sdrammatizza. Ma non smentisce. Anzi: questa battuta finale non mina la verità del discorso, semmai la avvicina allo spettatore. È il suo modo di dire: anche se tutto questo fosse frutto dell’immaginazione, è comunque mio. E funziona.
Il monologo di Jay è uno dei momenti più delicati di Untamed. In una serie dominata da dolore, colpa e perdita, offre una visione alternativa del legame con la morte e con il luogo. Jay non è solo un personaggio secondario: è la voce di una saggezza che non si può spiegare con i documenti o con le prove.
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