Untamed: il monologo di Jill e il ricordo spezzato di Caleb

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Nel terzo episodio di Untamed, il lutto torna a bussare alla porta. Non con grida, non con un’altra tragedia, ma con una scena piccola, quotidiana, apparentemente innocua: una madre davanti a un banco del gelato. Jill si apre con Kyle. Ammette di non essere felice, di avergli mentito. Ma il punto non è solo quello: è il modo in cui il dolore si infiltra nei dettagli minimi della vita, come un ricordo che ti prende alla gola nel momento meno adatto.

Ci penso sempre

STAGIONE 1 EP 3

MINUTAGGIO: 5:37-8:20
RUOLO:
Rosemarie DeWitt
ATTRICE: Jill Bodwin 

DOVE: Netflix



No, non sono felice. Me lo hai chiesto l’altro giorno e io… ti ho risposto di sì, ma era una bugia. Cerco di non fermarmi. Di tenere la mente occupata, ma… non faccio che… continuare a pensare alle cose che mi mancano di lui. Alle mie azioni da madre snaturata… oggi sono passata dal… dal gelataio, e… Ho ripensato all’ultima volta che ci sono andata con Caleb. Era così felice. Aveva il naso spiaccicato sulla vetrina. Ed era… era smarrito, fra tutti quei… Quei gusti. Cercava di decidere quale voleva e ricordo che io continuavo a dirgli: “Sbrigati Caleb. Scegline uno, scegli un gusto. Dobbiamo andare, la mamma è in ritardo”. Ricordo che quando era contento faceva quella cosa strana… camminava sul posto mentre schioccava le dita e io gli mettevo fretta: ”Sbrigati, Caleb. Scegli un gusto, scegline uno, andiamo!” Finché alla fine… Decisi io per lui. Per la fretta di andare all’ufficio postale di merda. Quindi insomma… chiamami quando ti pare. 

Untamed: trama e finale (con spoiler)

La trama di Untamed, la miniserie thriller di Netflix in sei episodi, è un viaggio tra le ombre del passato e i silenzi assordanti della natura selvaggia. Ma è anche un’indagine stratificata che, come il parco in cui si svolge, nasconde più di quanto mostra. Lo Yosemite non è semplicemente lo scenario: è un terreno vivo, pieno di tracce, minacce e fantasmi. Proprio come la coscienza del protagonista. Kyle Turner (Eric Bana) è un ranger dell’Investigative Services Branch del National Park Service, assegnato allo Yosemite dopo anni lontano da tutto. Un uomo segnato dalla tragedia: ha perso suo figlio Caleb anni prima, e da allora convive con un senso di colpa talmente ingombrante da diventare quasi un personaggio a parte.

Turner non cerca solo un colpevole: cerca una via d’uscita da se stesso.

Tutto inizia quando il corpo senza vita di una giovane donna – soprannominata Jane Doe – viene trovato appeso a una corda da scalata. All’inizio sembra un incidente, poi si scopre che è stata uccisa: ha un proiettile nella gamba. L’indagine si apre e si complica subito: niente è come sembra, e a ogni pista seguita corrisponde una nuova crepa nel fragile equilibrio del parco. La ragazza si chiama in realtà Lucy, ed è la figlia illegittima di Paul Souter (Sam Neill), il capo della polizia del parco. Lucy voleva confrontarsi con l’uomo che l’aveva abbandonata, ma l’incontro si trasforma in uno scontro tragico: Souter, sopraffatto dalla paura e dal senso di vergogna, la minaccia con un’arma, e lei si butta giù da una scogliera per non dargli la possibilità di ucciderla. Quando la verità viene a galla, Souter si toglie la vita.

Parallelamente, Turner scopre che Shane Maguire, il guardiacaccia recluso nei boschi, è coinvolto in un traffico illegale: ha coperto l’esistenza di un laboratorio di produzione di droga nascosto in una miniera abbandonata. Il tutto camuffato da attività legate alla fauna. Quando Kyle lo affronta, Maguire lo ferisce gravemente, ma viene ucciso da Naya Vasquez (Lily Santiago), la giovane ranger che aveva deciso di seguirlo di nascosto. Questa parte della trama – il laboratorio nascosto – è quasi un sottotesto simbolico: qualcosa di tossico cresce in segreto nel cuore del parco, proprio come il dolore mai elaborato dei personaggi.

Caleb, il figlio di Turner, è morto da anni. Non è mai realmente presente nella storia: è una proiezione, una voce nella mente di un uomo che non riesce a lasciarlo andare. Caleb è stato ucciso da un predatore sessuale di nome Sean Sanderson, a sua volta ucciso da Maguire per ordine implicito di Jill Bodwin (Rosemarie DeWitt), l’ex moglie di Kyle. Lei, accecata dal dolore e dalla sete di giustizia, aveva messo in moto una spirale di vendetta che ora sta venendo a galla pezzo dopo pezzo. La scoperta arriva attraverso delle fototrappole piazzate nel parco: immagini che mostrano l’omicidio di Sanderson, incastrando definitivamente Maguire.

L’ultimo episodio chiude molti fili. Turner, sopravvissuto alla caccia nei boschi, ha ormai fatto i conti con il proprio passato. Ha scoperto la verità su Lucy, su Souter, su Jill, su Maguire e, soprattutto, su se stesso. Il suo rapporto con Caleb – costruito nella mente ma vivido quanto basta – si spezza nell’ultima scena.

Kyle lascia il parco. Raccoglie le sue cose e se ne va. Non ci viene detto dove, ma il messaggio è chiaro: il ciclo è finito. Untamed non è una storia di redenzione convenzionale. Turner non viene “salvato”. Ma ha finalmente fatto silenzio dentro di sé. E ora, può camminare.

Analisi Monologo

"No, non sono felice. Me lo hai chiesto l’altro giorno e io… ti ho risposto di sì, ma era una bugia." Jill parte senza difese. Non cerca di mascherare il dolore, non prova a riformulare in maniera più accettabile. È una presa d’atto diretta: ha mentito, perché era più facile, più sopportabile.

Ma ora sente che non può più permetterselo. La sincerità diventa necessaria. "Cerco di non fermarmi. Di tenere la mente occupata…" Il meccanismo è chiaro: non pensare, non fermarsi, distrarsi. Ma funziona solo a metà. I ricordi trovano sempre un modo per riemergere, e spesso lo fanno dove meno te lo aspetti: davanti a un banco del gelato.

"Ho ripensato all’ultima volta che ci sono andata con Caleb. Era così felice… smarrito, fra tutti quei… Quei gusti." Jill sta raccontando un ricordo felice rovinato dal senso di colpa. Un momento tenero e normale – una madre e un figlio dal gelataio – diventa una condanna perché lei si ricorda di averlo forzato, di avergli tolto quel tempo, quella libertà. Una colpa che non è “razionale”, ma che si imprime addosso e non ti molla più. "Sbrigati Caleb. Scegline uno. Dobbiamo andare." Qui si capisce tutto: la quotidianità che prende il sopravvento sul tempo condiviso, la fretta che distrugge la presenza. Jill non si sta rimproverando per quello che ha fatto, ma per quello che non ha saputo fare: stare lì, con suo figlio, in quel momento. Quel giorno qualunque, diventato irripetibile. "Chiamami quando ti pare." La frase finale sembra buttata lì, ma ha un peso enorme. Dopo tutto quello che ha detto, Jill non chiede nulla. Non chiede di parlare, di chiarire, di tornare insieme. Non propone soluzioni. Fa solo spazio: se vorrai, io ci sono.

Conclusione

Il monologo di Jill in questo episodio è una delle sequenze più intime e struggenti di Untamed. Non parla di giustizia, non parla di vendetta. Parla del rimorso quotidiano, di come il dolore si nasconda tra le vetrine del gelato e le scelte banali che diventano, a posteriori, insopportabili.

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