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~ LA REDAZIONE DI RC
Per tutta la prima parte del film, Johnny Storm ha il ruolo che ci si aspetta: estroverso, ironico, istintivo. Ma sotto la superficie ardente, I Fantastici Quattro – Gli inizi gli costruisce un cuore che pulsa fortissimo. Il monologo che rivolge a Shalla-Bal, l’Araldo di Galactus, arriva a metà film come un’esplosione. È un grido di riconoscimento: tu sei come me. Ma hai fatto una scelta che io non voglio ripetere.
MINUTAGGIO: 1:00:00-1:01:00
RUOLO: Johnny
ATTORE: Joseph Quinn
DOVE: Al cinema!
23 traduzioni. Tutte nella tua lingua. Provenienti dal pianeta Zenn-La. La tua casa. Ti hanno cercata, per ringraziarti. Dopo aver tradotto una frase ho messo insieme abbastanza elementi per capire una parte della tua storia. Tu eri una specie di scienziata, o un’astrologa. Quando Galactus arrivò accettasti di servirlo, per salvare il tuo pianeta. Lo hai fatto per salvare la tua famiglia. Lui ti ha fatto diventare così. Shalla-Bal. Quei messaggi arrivano dall’unico pianeta che Galactus ha risparmiato. Il tuo pianeta. Gli altri non sono stati così fortunati. Di quanti di loro ti ricordi, Shalla-Bal? Proxima Delfi, Zagus, ti ricordi di Polaris? Hanno implorato di risparmiarli. Tu hai condotto Galactus su tutti quei pianeti. E ora lo stai portando qui. A casa mia! Dalla mia famiglia! Cerco solo di salvare il mio mondo, sai? Come hai fatto tu.
Matt Shakman firma il ritorno dei Fantastici Quattro nel Marvel Cinematic Universe, aprendo la Fase Sei con un film che spinge il gruppo direttamente dentro un conflitto cosmico, ma che affonda le radici nel personale, nel familiare, nel fragile equilibrio tra genitorialità, responsabilità e paura dell’ignoto. Questo non è solo un film sulle origini: è un film sul confrontarsi con ciò che viene dopo. Con ciò che si è generato.
Siamo su Terra-828. Sono passati quattro anni da quando Reed, Sue, Johnny e Ben hanno ottenuto i loro poteri. Ma ciò che li rende davvero una squadra non è la mutazione, è l'intimità. Il film apre su una cena familiare, momento tenero e tranquillo che verrà subito travolto da qualcosa di molto più grande: Silver Surfer appare e annuncia l’arrivo imminente di Galactus, colui che consuma pianeti per sopravvivere.
Da qui si snoda una trama che alterna momenti da space opera pura a crisi interiori personali. Reed è ossessionato dal legame tra l’esposizione ai raggi cosmici e l'arrivo della creatura. Sue è incinta e, pur consapevole del pericolo, è determinata a portare avanti la gravidanza. Johnny resta il più impulsivo, ma comincia a mostrare sprazzi di responsabilità. Ben è il più terreno, il collante emotivo del gruppo. Il tono è quello di una tragedia familiare vestita da blockbuster.
Il viaggio verso Galactus li porta a una delle rivelazioni centrali del film: il divoratore non è solo affamato di pianeti – vuole il figlio di Sue, Franklin, che ancora non è nato. Lo percepisce. Lo sente. Questo bambino è una fonte di energia talmente potente da interferire persino con il metabolismo cosmico di Galactus. Ed è qui che il film comincia davvero a girare su un asse diverso: quello del destino, del sacrificio, del potenziale pericoloso del potere.
Sue partorisce durante un inseguimento spaziale, mentre il team fugge dalla macchina cosmica di Galactus. È una delle sequenze più tese e surreali dell’MCU finora: nascita e morte, creazione e distruzione si sovrappongono visivamente e tematicamente.
Ma il ritorno sulla Terra non porta sollievo. Dopo una disastrosa conferenza stampa, l'opinione pubblica si rivolta contro i Fantastici Quattro. Il mondo è paralizzato dalla paura e inizia a domandarsi: vale davvero la pena rischiare l’estinzione dell’intero pianeta per non sacrificare un neonato? Qui il film assume tonalità quasi politiche, con una narrazione che richiama certi film catastrofici anni ‘70 – e un tono cupo che spiazza.
È Franklin Richards, il vero punto di svolta del film. Non tanto come personaggio, quanto come concetto: lui è una forza latente. Il bambino è l’incarnazione del potere puro e dell’innocenza assoluta – un paradosso potentissimo in un film che parla proprio di responsabilità e destino.
Dopo il fallimento del piano di Reed, che prevedeva di spostare la Terra lontano dalla traiettoria di Galactus attraverso una rete di portali quantici, la squadra si gioca l’ultima carta: usare Franklin come esca per attirare Galactus nel portale rimasto operativo a Times Square. È un piano disperato: la città è deserta, evacuata. Aiutano anche vecchi alleati, come l’Uomo Talpa.
Ma il piano fallisce. Galactus riesce a prendere il bambino, e quando tutto sembra perduto, Sue si ribella. Usa i suoi poteri per trattenere Galactus abbastanza a lungo da farlo finire nel portale. Tutto questo costa caro: Sue Storm muore per lo sforzo.
E lì, in un momento completamente atipico per un cinecomic Marvel, il film si prende una pausa totale dal rumore. I superstiti – Reed, Ben, Johnny – si inginocchiano accanto a Sue, che giace senza vita. Franklin si appoggia al suo grembo. Ed è in quel momento che accade qualcosa che cambia tutto: la madre rinasce. La scena è costruita con una solennità quasi sacrale, evitando volutamente ogni tipo di effetto pirotecnico. Il risveglio è silenzioso. È Franklin ad averla salvata. Senza comprendere cosa stia facendo. E forse proprio per questo ci riesce.
Questa scena è il cuore concettuale del film. Franklin non è un’arma. È un miracolo. Un’energia che restituisce vita anziché distruggerla. In un universo dominato da esseri onnipotenti come Thanos, Celestiali, Galactus, vedere che la vera forza rigenerativa nasce da un bambino appena nato è un messaggio potente.
Epilogo – Il seme del destino
Quattro anni dopo. Sue è viva. Si prende cura di Franklin in una casa isolata, circondata da natura. L’aria è calma. Ma quando il bambino viene avvicinato da un uomo mascherato, col mantello verde, tutto cambia. È Victor Von Doom, e il modo in cui il film costruisce questo reveal è da manuale. Nessun dialogo. Nessuna spiegazione. Solo una maschera, un incontro tra il destino e ciò che verrà.
La Fase Sei si apre davvero qui.
I Fantastici Quattro – Gli inizi non è un film sulle origini nel senso classico. È un film che parla delle conseguenze. Di ciò che accade dopo che si ottiene un grande potere. Di come si affronta un mondo che cambia quando una nuova vita entra nella storia. Shakman costruisce un MCU che comincia a maturare: meno ironia, più dilemmi morali. E soprattutto, meno eroi perfetti e più famiglie imperfette. Il risultato? Un’introduzione densa, che non chiude nulla, ma apre tutto.
“23 traduzioni. Tutte nella tua lingua.” Johnny, da sempre dipinto come istintivo, ha studiato, decifrato, imparato la lingua di Shalla-Bal. È il primo segno di maturità. Non cerca di combatterla con il fuoco. Cerca di parlarla. Ma questa non è una scena di riconciliazione. È una scena di rivelazione morale: Johnny ha scoperto la verità, e la verità ha un peso tragico. Quei messaggi che ha tradotto non erano codici, non erano armi. Erano lettere di gratitudine. Preghiere. Addii.
“Quei messaggi arrivano dall’unico pianeta che Galactus ha risparmiato. Il tuo pianeta.” E tu, Shalla-Bal, sei diventata il mezzo attraverso cui altri sono stati distrutti. “Di quanti di loro ti ricordi?” Johnny passa da studioso paziente a testimone d'accusa. Il ritmo si spezza, diventa frammentato, “Proxima Delfi. Zagus. Polaris.” Sono nomi. Non planeti fittizi: sono tombe.
Johnny sta dicendo una cosa precisa: Tu hai dimenticato. E io non posso permettermi di farlo. Questa frase è il cuore del confronto: “E ora lo stai portando qui. A casa mia. Dalla mia famiglia.” È lì che si condensa tutta la forza del monologo. Johnny nsta parlando della sua famiglia, e quindi della sua identità, della sua stessa esistenza. La posta in gioco non è più l’universo. È il salvare ciò che gli è più vicino. “Cerco solo di salvare il mio mondo, sai? Come hai fatto tu.”
Johnny non si pone come eroe. Si mette allo stesso livello dell’Araldo:
“Come hai fatto tu.”
E qui arriva l’ambiguità potente del film: Shalla-Bal ha fatto quello che Johnny probabilmente farebbe, se potesse.E lui lo sa. È per questo che il monologo colpisce: perché è una critica che non giudica, ma riconosce.
Johnny Storm diventa altro. Non solo un fratello, non solo un membro del team. Ma una coscienza in fiamme, che si rivolge non a un nemico, ma a qualcuno che ha fatto la scelta che lui sta cercando disperatamente di evitare. Il film usa questo momento per umanizzare entrambi i personaggi: l’eroe impulsivo e l’araldo cosmico diventano due persone che si specchiano nella paura della perdita. E Johnny, pur urlando, pur accusando, non chiede vendetta. Chiede solo di fermarsi. Non è poco, in un universo pieno di super esseri che vogliono avere ragione.
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